sabato 10 settembre 2016
Era l'11 settembre del 2001, due aerei vengono dirottati da terroristi di Al Qaeda e fatti schiantare sulle torri gemelle di Manhattan. Le vittime furono quasi 3mila. (VIttorio E. Parsi)
Quindici anni dopo l'attacco agli Usa
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Quindici anni fa noi occidentali siamo entrati nell’era del terrore che altre zone del mondo conoscevano già da almeno un decennio. E non ne siamo più usciti. Scorrendo le immagini che in questi giorni ci giungono dalla Siria, dallo Yemen, dalla Libia (solo per limitarci ai teatri a noi più immediatamente vicini) la considerazione è del tutto evidente e per nulla consolatoria. L’immensità dell’infamia compiuta quel giorno a New York e Washington resterà scolpita nella memoria collettiva, probabilmente insuperabile da qualunque altra ecatombe il destino vorrà riservarci negli anni a venire. Da quel gesto, e dalle reazioni anche inappropriate che ne sono scaturite con minore o maggiore legittimità, ci ritroviamo ancora imprigionati e, con noi, ne sono imprigionati popoli che con l’atto criminale e di guerra attuato dai seguaci di Benladen non avevano nulla a che fare. Eppure, è difficile opporsi all’evidenza che persino quanto sta oggi accadendo in Siria, in Iraq o in Yemen non derivi anche dal sangue versato in quella soleggiata mattina dell’11 settembre 2001. Come sappiamo gli Stati Uniti, e l’intera comunità politica internazionale, assunsero quel crimine come «un atto di guerra» al quale reagirono, con la benedizione dell’Onu, portando la guerra in casa di chi Benladen aveva protetto e rifiutava di consegnare. A quella guerra, che ancora oggi si trascina, seguì la sconsiderata invasione dell’Iraq, la quale contribuì a disperdere e diffondere ben oltre le periferie islamiche dell’Afghanistan e del Sudan la malapianta qaedista, di cui il Daesh rappresenta l’odierna mutazione genetica. Nell’arco temporale che va dagli attentati alle Twin Towers e al Pentagono alla proclamazione del Califfato jihadista sono racchiusi il tracollo del vecchio ordine mediorientale, l’effimera stagione delle primavere arabe, l’affermazione delle nuove potenze regionali rivali di Arabia Saudita e Iran, oltre alle centinaia di migliaia di morti e ai milioni di sfollati e profughi che sono diventati il panorama permanente di questo scorcio di millennio. Mentre ancora il fumo e la polvere degli attentati dovevano finire di posarsi, in tanti si interrogarono se le stragi avrebbero inaugurato una nuova epoca di conflitto, dopo la lunga pace dominata dall’equilibrio del terrore nucleare sovietico-americano. La risposta è sotto gli occhi di tutti. E se non c’è dubbio che i tanti errori compiuti dopo l’11 settembre abbiano contribuito ad alimentarla, è difficile negare, oggi, che quella così sanguinosamente recapitata da Benladen fu una dichiarazione di guerra: la volontà di rompere con qualsiasi mezzo un "ordine" ritenuto ingiusto e insopportabile (e in questo è il suo carattere internazionale) la cui sopravvivenza garantiva il sostegno ai regimi "apostati" del mondo islamico (e qui è il suo carattere di guerra civile interna alla Umma). Allora, sembrava difficile essere in guerra contro un’entità non statuale e non territorializzata come al-Qaeda; oggi al-Baghdadi ci ha graziosamente tolto dall’imbarazzo, dando vita a una concezione neo-statale (e non post-statale) della politica e della guerra che sopravviveranno a lungo dopo la sua auspicabile eliminazione. Sembrano lontani gli attentati qaedisti e il mondo in cui avvennero, almeno tanto quanto sono vicini, oppressivamente vicini, quelli di Parigi, Bruxelles, Nizza e i prossimi che inevitabilmente punteggeranno questi anni. Sembrano (fallacemente) lontane, persino nello spazio oltre che nel tempo, le stragi di Londra e Madrid, ancora una volta ispirate da gruppi terroristici islamisti. Eppure, la continuità è così spaventosa che non vogliamo neppure vederla, così come è difficile intravedere la fine di un’epoca che le parole, da sole, non possono chiudere. Sta invece alla politica, a un suo ritorno dall’esilio in cui l’abbiamo condannata convinti che imprese belliche, consumismo e appartata spiritualità "bastassero" all’umano, tentare di rispondere alla sfida che da 15 anni stiamo perdendo. Come ha osservato in un libro implacabile e provocatorio il filosofo Philppe-Joseph Salazar, «il terrorismo islamico del Califfato è un’ostilità generalizzata, polimorfa e illimitata. (…) il Califfato ha fatto risorgere l’essenza della politica, cioè la proclamazione fondatrice di un’eccezionalità senza termini di paragone». Dove sono le nostre risposte politiche? Dove le nostre proclamazioni? O crediamo davvero che all’aberrante maestosità, alla iperpoliticità sanguinaria che al-Baghdadi ci sbatte violentemente in faccia sarà sufficiente replicare tirando bombe a casaccio, mentre continuiamo a farfugliare qualche vetusto concetto liso dal tempo, tanto rispettabile quanto inefficace? Alla politica, al dovere della buona politica, non si sfugge. Se non altro, il tramonto delle illusioni mercatistiche che dal 2008 stiamo vivendo dovrebbe aiutarci a comprendere che questa semplice, eterna verità non rappresenta una condanna, ma la sola speranza umanamente possibile.
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