mercoledì 17 maggio 2017
L’odore di un’umanità che viaggia da troppo tempo assale chi arriva alle baracche, qui dietro alla stazione di Belgrado. Dà una sberla in faccia e ricorda che tu, di solito, profumi...
Belgrado 2017

Belgrado 2017

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L’odore di un’umanità che viaggia da troppo tempo assale chi arriva alle baracche, qui dietro alla stazione di Belgrado. Dà una sberla in faccia e ricorda che tu, di solito, profumi. Gli occhi scuri indagatori che squadrano, la soggezione di essere ragazzina tra tanti uomini, uomini per età, o perché li son diventati nell’anno passato tra un campo e un confine. E dopo qualche giorno ti ritrovi a essere riconosciuta, salutata e pure cercata. In un instancabile esercizio di umanità, cercano il contatto, nonostante sappiano che la gente qui va e viene, che magari non ha proprio senso affezionarsi. E poi certo, avere contatti europei serve sempre. Ma non è solo questo.

Visi di uomini in corpi bambini, visi di vecchi in corpi di trentenni. Ci sono studenti universitari, meccanici, artigiani di gioielli, proprietari di negozi, cuochi, disoccupati, poveri e ricchi. Pachistani e afghani che non si possono sopportare, gente che parla come minimo quattro lingue, chi sa l’inglese bene e chi si ostina a parlarti in pashtu, che sia per offrirti il pranzo cucinato sulla stufa o per raccontarti che il medico gli ha tolto una zecca e che male! Qui son bloccati tutti. Quelli che si mettono a imparare l’italiano, il serbo, il tedesco e il francese. Quelli che ti chiedono di scrivere l’alfabeto latino e passano un’ora a ricopiarlo. Chi ti passa al telefono il fratello, il cugino, i parenti in Italia o in Afghanistan («Eh, non vedi niente perché ora è buio là»). Chi ti dice che sono appena morti dei suoi amici per la bomba americana. Chi ti mostra le foto della famiglia e ti elenca chi è vivo e chi non c’è più.

Taliban, Daesh. Troppi visi, troppi nomi, troppe vite. E che ne sarà di loro? Di quello studente di medicina di diciannove anni che spera di continuare gli studi in Europa? Degli occhi verdi del ragazzo nella tenda di Medici senza frontiere, che aspetta di poter camminare di nuovo e ti dice che non sa nulla della sua famiglia da sette mesi. Di Deldar, 13 anni, quasi ammazzato di botte dalla polizia bulgara? E mentre torno alla mia stanzetta mi chiedo che succederà quando arriveranno finalmente a Londra, in Francia, in Svizzera. Perché dopo tutto questo rischieranno tutti e tanto di essere respinti. «Non sei abbastanza rifugiato, scusa». E allora dopo essersi visti negare dignità umana, dopo essersela ripresa con una determinazione e una fede straordinarie, dovranno ricevere anche questo e probabilmente vivere da invisibili.

Qui a Belgrado la situazione è complessa, non spiego quel poco che ho capito perché ogni ora scopro, capisco, ri-capisco qualcosa di nuovo.

Della cooperazione e della non-cooperazione tra le mille associazioni e Ong, dell’assenza del governo, della sua parziale assertività all’attività dei gruppi stranieri, fintanto che fa comodo tenere qui i migranti per ingraziarsi la Ue. Dei Serbi che passano tutti i giorni per la stazione ma la ignorano, di quelli che si potrebbero trasformare presto in naziskin, e urlano 'traditore' ai concittadini che aiutano gli ospiti indesiderati. Nonostante tutto questo indicibile, alla stazione di Belgrado si respirano anche speranza e allegria. Alcuni volontari stanno facendo un lavoro spettacolare: tra ieri e sabato c’è pure in corso un torneo di cricket. Si fa insieme, non c’è spazio per il solo assistenzialismo. Si cucina, si gioca, si suona, si dipingono i muri. La sera si balla. In certi momenti mi sembra tutto un grande gioco. Come forse sapete, i tentativi di attraversare i confini son chiamati ' game'. O si vince o si perde e si torna indietro. Ultimamente se la cavano senza ricevere botte.

Al di là del linguaggio, che alleggerisce un po’ il dramma, soprattutto guardando i ragazzini mi sembra che sia quasi un campo estivo. Sorridono quasi tutti e ti dicono « no salad » alla distribuzione del pranzo, come a scuola. Li lasci a ballare, i più giovani ti accompagnano fino all’entrata del parcheggio. « See you tomorrow ». Già, ci vediamo domani. Ecco, chissà quante cose vorrei ancora dirvi, per farvi respirare quel che viviamo qui. Respirare il profumo di grigliata, per esempio, dalle 8 di mattina a notte inoltrata, per le strade di Belgrado. Ma quel che mi sta più a cuore è testimoniare la speranza e l’umanità che c’è qui. Umanità bella e gentile, umanità maleducata e un po’ Alibaba (che vuole dire ladra), come poi siamo tutti. Questa Pasqua 2017 l’ho passata tra l’ospitalità delle baracche e quella di una famiglia serba da cui sono stata invitata domenica. E qui è Pasqua ogni giorno, credo.


*Alice ha 24 anni, e studia cooperazione. Frequenta Ong (e qualcuno, ormai lo abbiamo chiaro, vorrebbe far suonare questo acronimo come una parolaccia), scruta il potere dalla parte dei senza-potere, e vede gente unica eppure uguale, cittadina e straniera, come ognuno di noi. Ma la vede davvero, come dovremmo fare sempre tutti, soprattutto i politici, e ancor di più noi cronisti. Sono grato a sua madre, Laura, che ha deciso di mettere nella mia cassetta postale elettronica, con fiducia e dopo qualche giro a vuoto, questa semplice e straordinaria 'lettera di Pasqua' di una figlia della quale posso scrivere soltanto il nome e che ha scelto di provare studio, fibra e speranza come stagista tra «l’umanità che c’è qui», dietro alla stazione di Belgrado, dove i naufraghi sono di terra e quasi tutte le baracche- zattere di salvataggio sono state, nel frattempo, fatte a pezzi per «ordine pubblico». Che Dio protegga i poveri. E che benedica questa figlia, che è già madre di un più giusto domani. Le sue scelte, i suoi gesti e le sue parole sono piene di vita, di bontà e di verità. (mt)

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