venerdì 22 ottobre 2021
La pallavolo italiana in silenzio sui campi per ricordare la 18enne afghana probabilmente vittima dei taleban (anche se le notizie sono contrastanti)
Mahjubin Hakimi con le compagne di squadra in una foto pubblicata sul profilo Twitter di Sima Noori

Mahjubin Hakimi con le compagne di squadra in una foto pubblicata sul profilo Twitter di Sima Noori - Ansa / Twitter

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«Guardatela come se fosse vostra figlia: Mahjubin è stata decapitata. Questo è oggi l’Afghanistan. Abbiamo persone lì che sono cadaveri ambulanti», scriveva l’altro giorno in un tweet l’ex allenatore della nazionale maschile di pallavolo e oggi responsabile sport del Pd, Mauro Berruto, pubblicando la foto della ragazza. Ci voleva coraggio a guardarla, ma andava fatto: sorriso appena accennato, volto scoperto, capelli lunghi neri, occhi a mandorla pieni di sogni com’è giusto che sia a diciott’anni, Mahjubin Hakimi, giocatrice della nazionale giovanile di volley in Afghanistan, non c’era più. Da poche ore il mondo intero era stato attraversato dalla più orrenda delle notizie: la piccola Mahjubin era stata punita proprio perché al posto del velo islamico indossava quel sorriso e quello sguardo, decapitata secondo il feroce rituale con cui il regime taleban dispensa la morte ai 'colpevoli'.

E di colpe ne aveva tante, Mahjubin, agli occhi dei suoi frustrati aguzzini: non solo era nata donna (come ciascuna delle loro madri!), ma praticava uno sport, cosa già di per sé peccaminosa per una femmina, e lo praticava senza hijab. Addirittura andava al lavoro come solo un maschio ha diritto di fare, giovanissima agente nel corpo della Polizia locale. Infine apparteneva alla minoranza hazara, un’aggravante 'razziale' che chiudeva il cerchio dei suoi 'giustizieri' e la condannava. Più fortuna hanno avuto le sue compagne di squadra, riuscite nei mesi scorsi a fuggire dall’Afghanistan occupato dai taleban e a mettersi in salvo oltre confine, ma lei no, era rimasta intrappolata nell’inferno di un Paese che aveva per poco assaggiato il sapore della civiltà e di colpo precipitava nella barbarie, dove anche andare a scuola o ascoltare musica è un crimine da punire con la morte.

«Un minuto di silenzio in memoria di Mahjubin Hakimi sarà osservato su tutti i campi della pallavolo nel fine settimana», ha disposto ieri il presidente della Fipav, Giuseppe Manfredi, in accordo con il presidente del Coni, Giovanni Malagò, e la sottosegretaria allo Sport, Valentina Vezzali, «il lutto sarà osservato da tutta la pallavolo italiana, a partire dalla massima serie fino ai campionati regionali e territoriali». Bene. Meglio ancora sarebbe se quel minuto di silenzio fosse raccolto da tutti gli sport, perché la morte disumana di questa ragazza non riguarda il volley, ma va a minare il nostro essere umani e ripiomba indietro di millenni la nostra civiltà. Lo ha ben capito Myriam Sylla, capitana dell’Italvolley femminile campione d’Europa: «Il mondo intero deve sentirsi in colpa e in lutto per la morte di Mahjubin», dichiara l’azzurra con un vibrante messaggio video, «mi è stato chiesto cosa ne penso da atleta, da donna, da capitana, ma è una vicenda che riguarda tutti noi, non solo me. Non è ammissibile nel 2021 che una ragazza che insegue un sogno trovi la morte. Lo sport deve rendere le persone libere, non vittime: per questo il mondo ha fallito, Mahjubin poteva essere mia sorella. Potevo essere io».

Mentre dichiarazioni di sdegno si rincorrevano da parte di commentatori e politici, le notizie sulla giovane afghana ieri si rincorrevano e contraddicevano. Di sicuro restava solo che lei non c’era più, ma le cause della sua morte entravano nel limbo dell’incerto. Se infatti a parlare di decapitazione era stata l’allenatrice della diciottenne pallavolista, intervistata dal quotidiano britannico The Indipendent nell’edizione locale, naturalmente sotto pseudonimo (articolo misteriosamente rimosso), ieri è arrivata la smentita da parte dei media afghani. «Non è stata decapitata, si è suicidata», dichiara Matiullah Shirzad, direttore di Aamaj News, una testata che ha corrispondenti nelle 34 province del Paese. Il quale nega anche che la morte sia avvenuta dopo il 15 agosto, giorno dell’ingresso a Kabul dei taleban e della loro presa del potere, ma due giorni prima, per noi 13 agosto, «il 22 del mese di mordad dell’anno 1400» nel calendario locale. Il giornalista non spiega perché l’atleta si sarebbe tolta la vita, ma definisce «prive di fondamento» le accuse al regime e la versione secondo la quale la giovane sarebbe stata punita per la sua appartenenza etnica e il rifiuto di indossare il velo. Anche il suo collega Miraga Popal, ex editore dell’emittente nazionale Tolo News, ora rifugiato in Albania, con un post nega la decapitazione di Mahjubin e afferma che «si era suicidata dieci giorni prima della presa del potere dei taleban», ma la famiglia avrebbe nascosto la verità perché il suicidio è un tabù...

Decapitata? Suicida? Dov’è la verità? Abbiamo ancora negli occhi quei telegiornali-farsa trasmessi da Kabul a partire da agosto, con il giornalista che legge le notizie e due uomini armati alle sue spalle, perfettamente a loro agio in diretta tv di fronte al mondo, tronfi e impuniti a rimarcare l’assenza di libertà e la plateale arroganza delle loro menzogne: difficile ora fidarsi sia di una testata così ben radicata sul territorio nazionale, sia di un editore in salvo in Albania, ma che certamente in patria ha ancora parte della famiglia, la cui vita varrebbe meno di zero. Ma comunque sia morta Mahjubin, in fondo la questione non si sposta di un millimetro. Che a toglierle la vita sia stata la scure di un boia (e chissà quante teste ha tagliato, meno famose, meno mediatiche) o invece la sua disperazione per il crollo di ogni libertà, a stroncare la sua giovane vita è stato comunque il più oscurantista dei regimi sulla faccia della terra. A ricordarcelo c’è un altro volto che non possiamo scordare, così diverso e così uguale a Mahjubin, quello coperto di lacrime di un’altra ragazzina afghana – trecce bionde ma stessi occhi a mandorla – che, rivolta ai sette miliardi di esseri umani sulla terra, in agosto ci supplicava con un breve video messo sul web all’arrivo dei taleban, «ci dimenticherete perché siamo nate in Afghanistan, a nessuno importa di noi, moriremo lentamente nella storia... ». Non sappiamo che nome avesse e se oggi è vivo o morta, ma sappiamo che di certo non è potuta tornare a scuola, a fare sport, a vestirsi da donna, a far volare gli aquiloni o cantare una canzone.

«Fermiamo questo genocidio con i corridoi umanitari o ne saremo responsabili», è l’appello dell’ex ct Berruto, e ha ragione, perché se gireremo la testa per fingere di non vedere saremo taleban anche noi. Mahjubin Hakimi non ce l’ha fatta, ma sono centinaia gli sportivi, soprattutto donne, ancora in fuga dall’Afghanistan. La Fifa, a operazioni concluse, ha annunciato l’evacuazione di 57 persone, tutte legate al mondo del basket femminile, atterrate l’altroieri in Qatar, mentre la settimana scorsa avevano già trovato la salvezza quasi cento membri della Federcalcio afghana. Incredibile? Niente lo è nell’allucinato mondo dei taleban, tanto complessati nei confronti delle donne da volerle annientare sebbene li mettano al mondo, tutto lì può accadere. Anche di sentirli proporre all’Occidente, a metà tra tragedia e commedia dell’assurdo, di fare donazioni al nuovo regime, una sorta di paradossale «aiutateli in casa loro» autopromosso e privo di dignità. Aiutiamo, sì, le vittime, accogliamo chi fugge, diamo sostegno alle agenzie che soccorrono la popolazione, ma nessuna assoluzione al regime assassino che tanto fa per apparirci evoluto. Non lasciamo che la ragazza dalle trecce bionde abbia detto di noi una tragica verità.

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