domenica 25 agosto 2013
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Sapeva di rischiare grosso don Giovanni Minzoni, parroco di Argenta, dopo quei no ripetuti ai fascisti locali, che gli avevano persino offerto i gradi di 'centurione' della Milizia sperando di portarlo dalla loro parte. Ma non era uomo da provare timore. In guerra, da cappellano militare, aveva dimostrato un coraggio da leone. Mettendosi una volta perfino alla testa degli Arditi, sul Piave, armato di fucile. E per questo aveva conquistato la medaglia d’argento al valor militare, di cui andava fierissimo.
Era partito volontario per il fronte. Dopo gli accorati appelli di Benedetto XV alla pace i cattolici italiani erano accusati di vigliaccheria, di spirito antinazionale. E don Minzoni voleva riscattare questa immagine distorta. Ma alla fine del conflitto lo attendeva una più difficile e pericolosa battaglia, quella contro il fascismo, deciso a prendere il potere con tutti i mezzi e a soffocare ogni spazio di autonomia. Don Minzoni, vicino alle posizioni del Partito Popolare di don Luigi Sturzo, sentiva come suo dovere specifico di prete difendere i suoi giovani da un’ideologia totalizzante, illiberale, che idolatrava la violenza e proponeva il culto della personalità del capo. Nel suo diario, pubblicato da don Lorenzo Bedeschi, parlava chiaramente della necessità di «passare il Rubicone» contro «la vita stupida e servile che si vuole imporre».
Ai fascisti di Argenta, in particolare, dava fastidio il gruppo di scout cattolici, fondato da don Giovanni. Le famiglie locali preferivano affidare i loro figlioli alle cure di quel prete buono e determinato, piuttosto che all’Opera nazionale balilla. Era uno smacco, una provocazione intollerabile. Provarono con le buone, inutilmente. Poi arrivarono le minacce. Anche pubbliche. Ma era tutto vano: don Minzoni non si piegava. Finché un paio di squadristi venuti da un paese vicino attesero, di sera, il passaggio del parroco nascosti nell’ombra. Lo aggredirono alle spalle, colpendolo alla nuca. Volevano forse dargli solo una lezione, una di quelle «bastonate di stile, senza esagerare» che il ras locale Italo Balbo aveva raccomandato per gli oppositori del fascismo. Ma il colpo fu fatale: dopo alcune ore Minzoni morì, senza aver mai ripreso conoscenza.
Era il 23 agosto di novant’anni fa. Don Minzoni lo aveva messo in conto: «Attendo la bufera – aveva scritto nel suo diario –, la persecuzione, forse la morte per il trionfo della Corona di Cristo. La religione non ammette servilismi, ma il martirio». La notizia della morte di quel prete fece rapidamente il giro d’Italia, suscitando sdegno e riprovazione. Pesò, in quel drammatico frangente, l’atteggiamento minimizzante di quei cattolici favorevoli a una politica di appeasement con il nascente regime. Al funerale di don Minzoni si parlò solo delle virtù del sacerdote, senza nemmeno una parola di condanna per il clima di violenza politica in cui il delitto era chiaramente maturato.
Ben diverso fu il comportamento dei popolari. Giuseppe Donati, il battagliero direttore del 'Popolo', ingaggiò una coraggiosa campagna di stampa sul caso Minzoni, richiamando la responsabilità di tutto il movimento fascista, che del manganello aveva fatto lo strumento per la conquista del potere. Fu tutto vano. I giudici, pesantemente intimiditi, nel 1924 mandarono assolti esecutori e mandanti. E di don Minzoni, nell’Italia fascista, non se ne sentì più parlare. Solo nel 1947 i bastonatori di don Minzoni furono condannati per omicidio preterintenzionale. E poi amnistiati. A metà degli anni Sessanta, grazie anche alla pubblicazione del diario, la figura e l’opera del parroco d’Argenta ci è stata restituita nella sua interezza, di cattolico popolare e di prete esemplare, nonostante qualche squallido tentativo da parte di esponenti neofascisti di screditarne la memoria.
Giovanni Paolo II, nel 1983, nel sessantesimo anniversario della morte, scrisse con grande lucidità che «Don Minzoni morì 'vittima scelta' di una violenza cieca e brutale, ma il senso radicale di quella immolazione supera di gran lunga la semplice volontà di opposizione a un regime oppressivo e si colloca sul piano della fede cristiana, mentre ritrova la sua giusta prospettiva da un iter sacerdotale e pastorale di smagliante limpidezza». Era una chiara e autorevolissima rivendicazione dell’appartenenza di questo sacerdote martire alla comunità cristiana. Non poteva certo prevedere che queste stesse parole avrebbero potuto riferirsi, di lì a un anno, al suo amico Jerzy Popieluszko, il prete di Solidarnosc, ucciso dai servizi di sicurezza polacchi, in circostanze tragicamente analoghe a quelle di Minzoni.
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