martedì 9 dicembre 2008
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Caro Direttore,scrivo per avere suggerimenti e consigli, ma anche per dare sfogo alla difficile situazione della mia famiglia. Sono la zia di un ragazzo che sta per compiere 20 anni. È affetto da sindrome borderline; l’anno scorso ha tentato il suicidio e da tre anni stiamo cercando di trovare psichiatri e psicoterapeuti che se ne occupino. È spesso un girare a vuoto. L’unica soluzione sembra, per ora, la terapia farmacologia. La situazione è veramente desolante: mio nipote non ha un diploma di scuola superiore, non fa nulla; ha iniziato lavoretti che poi ha abbandonato; in tre anni ha subito una metamorfosi sconvolgente: era un atleta, faceva pallanuoto, aveva amici. Ora è obeso, fuma, gli amici stanno progressivamente scomparendo; rifiuta la famiglia. Noi non sappiamo cosa fare, anche perché fino ad ora dai medici non ci sono venuti grandi aiuti né consigli. Per noi è durissima. Ci sentiamo soli, senza sostegno. Questa nostra situazione è simile a quella di migliaia di altre famiglie. Però se ne parla pochissimo. In questi giorni di vacanza si vedono alla televisione molti spot contro l’abbandono dei cani, ma quanto poco si parla del disagio legato alla malattia mentale. Scusi lo sfogo .

E.R., Milano

Il suo appello mi colpisce come un diretto al volto mentre mi trovo con la "guardia" abbassata. Non sono in grado di reagire, perché, davvero, non posso fare alcunché. L’unica mia "arma" è la scrittura resa pubblica, messa in pagina con evidenza. Questo lo faccio volentieri, aggiungendo il mio appello al suo. Lei non attacca nessuno, e tuttavia le sue parole contengono una denuncia drammatica, la stessa tante volte raccolta dalla bocca o dalla penna di familiari di persone affette da patologie psichiche e riferita accuratamente nelle nostre pagine. Il peso degli ammalati ricade completamente e in forma gravosissima sulle famiglie, su genitori che guardano con angoscia gli anni incombenti della vecchiaia, chiedendosi chi si prenderà cura del figlio. Le uniche risposte, necessariamente parziali, sembrano provenire dal volontariato e dall’associazionismo delle stesse famiglie, mentre la sanità pubblica resta avara di attenzioni. In molti casi l’unico trattamento disponibile è, come lei stessa nota, quello farmacologico, col frequente sottinteso che si tratta di persone che non vale la pena provare a recuperare. La stessa difficoltà a trovare consigli non sbrigativi, è emblematica di un’insofferenza generalizzata nei riguardi del disagio psichico indegna di una società che vanta a ogni piè sospinto di richiamarsi sulla solidarietà. Noi continuiamo a prestare attenzione al problema, a rilanciare appelli, a far parlare i diretti interessati, a sollecitare i pubblici poteri a non accontentarsi della chiusura dei manicomi, ma a prendersi seriamente carico delle esigenze di assistenza e cura di queste persone. Oggi, assieme a lei, lo facciamo ancora una volta.

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