martedì 23 dicembre 2008
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Caro Direttore,qualche mese fa, a causa di una malattia della quale mia madre periodicamente soffre da più di trent’anni, ho pensato al mio futuro, a quando mia madre non potrà più occuparsi di me. A quel punto ho chiamato la mia Asl (n.17), chiedendo che mi indicassero una struttura adeguata alle mie necessità, per il periodo in cui mia madre non fosse stata in grado di aiutarmi come fa quando sta bene. Mi hanno detto di andare a vedere una struttura: sembrava bellissima, ma mancava il personale infermieristico in grado di assistermi nelle operazioni di cateterismo e defecazione. Ho trascorso un giorno in questa struttura e poi me ne sono andato perché non mi sentivo tranquillo dato che, ad esempio, il bagno non era sufficientemente attrezzato, in quanto c’era solo la possibilità di appoggiarsi alla mia sinistra, mentre alla mia destra dovevo appoggiarmi ad un operatore, con il rischio di cadere entrambi. Durante il giorno gli utenti erano inseriti in un Ceod (Centro educativo occupazionale diurno), realtà che già conosco, avendone frequentati due e che ritengo inadeguata, visto che il mio ritardo è di tipo motorio e non mentale, mentre queste strutture, sulla cui utilità non ho nulla da eccepire, sono pensate di fatto, solo per chi ha problemi di tipo cognitivo. Possibile che a nessuno sia mai venuto in mente che anche un paraplegico o un tetraplegico, pur non avendo un’occupazione e quindi la prospettiva di potersi fare una famiglia, potrebbero avere voglia, in età adulta, di vivere con persone come loro, e non obbligate a gravare sui familiari? Non credo di essere il primo che si fa una domanda del genere, anzi, ho conosciuto chi prima di me ha fatto quest’esperienza in un’altra regione, ma il risultato è stato più o meno il medesimo. Io e mia madre vorremmo sapere, a chi ci si deve rivolgere per avere giuste informazioni, dal momento che anche chiedendo all’assistente sociale della nostra Asl, abbiamo ricevuto prima una risposta inadeguata e poi ci è stato detto che, se si facesse una struttura per ogni genere di disabilità, si darebbe origine a dei piccoli ghetti. Quest’estate siamo stati in vacanza e parlando con altre persone è emerso questo problema e questo desiderio, destinato a rimanere tale proprio a causa della mancanza di strutture. Un buon inizio sarebbe poter avere una struttura per regione. Uno spazio attrezzato a misura di disabile, nel quale, chi nasce con una lesione possa imparare tutto ciò che serve per gestirsi anche al di fuori della struttura come ad esempio cucinare, stirare e così via o re-imparare, nel caso di un lesionato da incidente. .

Guerrino Silvestrin ed Emilia Codogno

Chi ci legge conosce la doverosa attenzione che prestiamo alle difficoltà che i disabili e le loro famiglie sono costretti ad affrontare quotidianamente, oltre a quelle legate alla loro situazione personale. I problemi spesso drammatici di chi deve fare i conti col disagio psichico, per il quale il supporto della sanità pubblica è quasi sempre esiguo quando non assente, e chi, affetto da limitazioni fisiche, deve esercitarsi in continue acrobazie per venire a capo delle «barriere» mantenute dall’incuria di chi non applica le leggi o con gli intralci posti da chi è semplicemente maleducato. Una vita sempre in salita, sia per chi è direttamente affetto dalla menomazione, sia per chi – familiare, quasi sempre genitore – sostiene il disabile. Una vita sulla quale incombe come prospettiva inesorabile e terrificante l’impossibilità dei genitori di aiutare il figlio o la figlia a causa dell’avanzare dell’età o della morte. Chi risponde a questo assillo via via sempre più angoscioso? Finora, come voi stessi rilevate, le pubbliche istituzioni non sembrano aver offerto soluzioni adeguate. Le iniziative più significative di cui abbiamo notizia paiono essere intraprese da realtà del volontariato di ispirazione cattolica, come quella sorta in una realtà a voi vicina, la mia provincia di Treviso, con la Fondazione "Il nostro domani onlus". Un progetto sorto per dare risposta all’assillo del "dopo di noi", «l’angoscia (dovrei dire il terrore) era che dopo si riaprisse per i loro figli tanto amati le porte di grandi istituti dove prima erano da sempre stati rinchiusi e segregati» (www.ilnostrodomani.org). La soluzione da loro trovata: «Progettare e costruire contesti abitativi in alternativa all’istituto, in sostituzione della famiglia naturale e in collaborazione con le istituzioni pubbliche. Si tratta di comunità alloggio e gruppi appartamento gestiti in convenzione con il privato sociale, aperti al territorio e in continua comunicazione con le sue risorse, nel rispetto della programmazione e dei Piani di zona delle Asl della provincia». A Treviso l’iniziativa è in corso da 10 anni; altre di certo ce ne sono nel Veneto e in altre regioni: ciò che manca e che è giusto chiedere ad amministratori e politici è di farsi promotori e sostenitori di progetti analoghi in ogni zona del nostro Paese: le risorse necessarie sono certo inferiori a quelle che dovrebbero essere investite per offrire ospitalità in istituto a chi si trovasse privo di qualsiasi alternativa. A voi il mio affettuoso, carissimo augurio di un Santo Natale davvero lieto e sereno.
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