Diritti umani senza frontiere
sabato 1 luglio 2023

Tocca sempre più spesso alle Corti di giustizia frenare la corsa dei governi verso soluzioni disumane ai drammi dei profughi. Questa volta è stata la Corte d’appello britannica a bocciare il controverso piano di deportazioni verso il Ruanda che il governo conservatore del premier Sunak ha ereditato da Boris Johnson. Un piano avversato dalle organizzazioni umanitarie e dalle Chiese anglicana e cattolica, e contro cui l’Unhcr aveva presentato appello, dopo che nel dicembre scorso l’Alta Corte del Regno Unito l’aveva definito legale.

Ora i giudici di Londra hanno stabilito che il Ruanda non è un Paese sicuro per chi chiede asilo, dati i suoi precedenti di detenzioni ed espulsioni arbitrarie di rifugiati: i trasferimenti forzati violerebbero la convenzione europea dei diritti dell’uomo, che proibisce i trattamenti disumani e la tortura. Il verdetto, non unanime, contiene però una clausola che potrebbe rilanciare il piano: il divieto varrà finché il governo di Kigali non avrà corretto le carenze nelle sue procedure di trattamento delle domande di asilo. Vittoria sudata e non definitiva per i rifugiati e difensori dei diritti umani, ma sconfitta comunque cocente per gli esponenti conservatori.

Il governo britannico ha sempre giustificato la drastica proposta con gli alti numeri di profughi che attraversano illegalmente la Manica: 46.000 nel 2022, molti meno in realtà finora quest’anno, 11.000. Molto pochi comunque in confronto con quelli che in vario modo approdano nell’Europa continentale, solo in parte via mare.

Come in casi analoghi, Sunak punta il dito contro i trafficanti e rivendica la necessità di entrare nel Paese soltanto se debitamente autorizzati, ma come in casi analoghi non spiega come le vittime dei conflitti in lontani Paesi del mondo potrebbero ottenere documenti, visti, regolari biglietti aerei. Il piano di deportazione in Ruanda, oltre a trovare un parallelo in Danimarca, avrebbe un chiaro significato di deterrenza e di allontanamento dei poveri, con le loro ingombranti richieste di aiuto. La vicenda rilancia una questione di fondo. Il governo conservatore si appella al consenso popolare e rivendica il potere sovrano di decidere su chi può entrare nel Paese. Il monopolio delle frontiere e il controllo degli ingressi rappresentano una prerogativa statuale fin dall’epoca dell’invenzione dei passaporti.

Ma dopo la Seconda guerra mondiale, le convenzioni sui diritti umani hanno temperato questo potere introducendo un altro principio: chi fugge da guerre e persecuzioni va accolto, indipendentemente dal modo in cui arriva. La tutela della vita e dei diritti umani viene prima della pretesa sacralità delle frontiere. Sunak e il pensiero sovranista vorrebbero far tornare indietro l’orologio della storia, aggirando le convenzioni sull’asilo con l’espediente del trasferimento forzato dei rifugiati in un Paese africano che occupa uno degli ultimi posti della graduatoria dello sviluppo umano, il 165° su 191: dietro Haiti, Zambia, Repubblica del Congo. Pressato da una profonda crisi economica post-Brexit e da un impressionante calo di popolarità, il governo conservatore non si dà per vinto e ha annunciato un nuovo ricorso all’Alta Corte: cerca consenso interno a spese dei diritti di chi non può difendersi né col voto né col portafogli. Sta cercando di far approvare una nuova legge sull’immigrazione, come ha ricordato Avvenire nella sua corrispondenza da Londra, con cui spera di rimontare la china alle prossime e non lontane elezioni.

Nel frattempo, il sovranismo alza la testa anche a Bruxelles: a poche settimane dal faticoso e modesto accordo del Lussemburgo, Polonia e Ungheria hanno contestato quella minimale “solidarietà obbligatoria” su cui il Consiglio dell’Ue aveva trovato un’intesa. Mentre i sovranismi, in questa come in altre importanti materie finiscono per paralizzare i processi decisionali, il rischio è che il consenso si trovi soltanto sull’inasprimento delle frontiere esterne. Mentre ancora si cercano le vittime del naufragio del Peloponneso, non sarebbe una risposta degna dell’Unione Europea e dei suoi fondatori.

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