mercoledì 10 marzo 2010
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Caro direttore,il pezzo di Roberto Righetto che il 3 marzo ha commentato il bellissimo spazio di Agorà dedicato al "Cortile dei Gentili" riserva a mio avviso troppe righe alle «colpe» dei laicisti, quasi che la maggior parte dei non credenti sia quella chiassosa pregiudizialmente anticlericale, anziché una silenziosa platea indifferente al sacro o drammaticamente in ricerca, e troppo poche all’autocritica (anche se incisiva: «la fede non ci rende uomini superiori agli altri»; io aggiungo che, inoltre, la fede dovrebbe ispirarci continuamente alla croce, quale amore che si manifesta anche nei confronti di chi fa male a se stesso e agli altri per farci osare la speranza, allontanandoci dalla tentazione della crociata, quale potere «giusto» che si impone dall’alto contro ciò che è sbagliato). Eppure nelle interviste mi sembra sia emersa in maniera forte e chiara la richiesta di una Chiesa che sappia ridurre l’eccessivo focus mediatico odierno su singole battaglie politiche e valoriali (facendo in particolare attenzione all’appoggio interessato dell’ateismo devoto) a beneficio di una maggiore valorizzazione della spiritualità e del primo annuncio, affinché attraverso noi credenti venga manifestata prima di tutto la luce e la forza dell’incontro personale con Gesù, unico vero carattere distintivo dei cristiani dal resto delle genti. In fondo, anche da parte di chi non ha fede, è fondamentale avere interlocutori credibili su ciò che costituisce il proprium del cristianesimo. Ed è il vissuto e la testimonianza dell’incontro e della relazione viva con Dio ciò di cui i cristiani sono debitori alla società: se viene a mancare o viene messo in secondo piano questo elemento, lo stesso apporto fecondo al patrimonio etico generale viene a mancare. Al contrario, è oggi facilmente riscontrabile (lo sottolineano più volte anche i vescovi delle diocesi lombarde in un recente intervento sul primo annuncio) che troppo spesso il cristianesimo venga declinato come sola adesione alla dottrina proposta nella Chiesa, come partecipazione alla ritualità precettata o, peggio, come mera tradizione culturale al pari di tante altre, dando vita a moralismi e chiusure che ben poco fanno fruttificare fede speranza e carità. Non è quindi forse il caso di verificare innanzitutto qual è il contenuto e quali le modalità di dialogo che l’Evangelo ci chiede, anziché concentrarci infastiditi sulle chiusure altrui?

Alessandro Simonato Portogruaro (Ve)

I silenziosi, caro Simonato, ovviamente ci sono: tra i credenti e tra i non credenti. E a lume di naso ne intravvedo più tra i primi che tra i secondi (anche perché i credenti caldi, tiepidi o freddini sono assai di più dei non credenti). Se guardiamo a coloro che, invece, «si fanno sentire», temo proprio, gentile amico, che i cattolici attenti all’altro siano (purtroppo, per un verso; per fortuna, per l’altro) assai più numerosi dei laici animati dalla stessa disponibilità. Parto da qui, da questa oggettiva attenzione al pensiero e alla vita dei non credenti (o dei diversamente credenti) oggi praticata dai cattolici, non per rivendicare meriti e accampare una qualche pretesa nei confronti dei nostri interlocutori, ma per sottolineare una realtà tanto evidente quanto misconosciuta. Una realtà dalla quale non si può prescindere se si vuole dialogare davvero, partendo dai fatti. Anche solo a fermarsi ai giornali, è proprio il caso di dire che il confronto è arduo: quando c’è spazio per la Chiesa, nove volte su dieci riguarda aspetti pruriginosi o, se va bene, folcloristici. E gli interlocutori «cattolici», nella grande maggioranza dei casi, sono ammessi a patto che manifestino distacco e dissenso rispetto all’«Istituzione». Pensi solo, poi, a eventi di straordinario spessore e rilievo come il recente convegno su "Dio oggi", promosso a Roma dal cardinale Ruini o, più a ritroso nel tempo, come il grande convegno ecclesiale di Verona (2006) o la Settimana sociale dei cattolici di Pisa (2007). Quale risalto e approfondimento hanno ottenuto sui media «indipendenti»? Insomma, davvero le pare che, se c’è supponenza, siamo noi a esercitarla? E veniamo a quello che lei definisce un «eccessivo focus mediatico su singole battaglie politiche e valoriali». Anche qui mi sembra che sfugga come non sia la Chiesa a concentrarsi «soltanto» su taluni aspetti delle questioni cruciali del nostro tempo, ma siano molto spesso i mass media a operare una selezione forzata e politicistica delle riflessioni sui temi della vita umana e della famiglia naturale, corredandole di titoli invariabilmente dedicati all’«attacco», all’«aggressione», all’«anatema», al «diktat». Basterebbe, invece, tanto per fare un esempio non casuale, leggere sul serio le ultime prolusioni del presidente della Cei, cardinale Bagnasco, per rendersi conto dell’ampio spettro di argomenti affrontati dai vescovi italiani e del modo profondo e dialogico con il quale guardano anche alla realtà socio-politica del Paese... Infine: lei si richiama ai contributi raccolti nella serie di dense e «polifoniche» pagine con cui, in Agorà, abbiamo dato seguito a una sollecitazione del Papa ad aprire una sorta di «Cortile dei gentili» (ed è stato proprio Roberto Righetto a pianificare il progetto con Lorenzo Fazzini): non sono un episodio isolato. Anche nel nostro piccolo l’attenzione è reale e sincera. Ma la convivialità da lei auspicata presuppone, caro amico, stima reciproca tra i commensali, il che significa che nessuno può pretendere che l’altro annacqui sistematicamente il proprio vino. Noi, come i nostri vescovi, i nostri preti e fior di credenti semplici ma non silenziosi, facciamo la nostra parte nel campo aperto della società a cui apparteniamo e che ci appartiene. Offriamo le nostre idee e ci confrontiamo con quelle altrui senza timidezze e senza riserve mentali. E troviamo buoni amici e interlocutori sereni anche tra chi la pensa diversamente. Vorremmo poter dire altrettanto di certi maître à penser che vanno per la maggiore e godono di potenti grancasse mediatiche. Per controbattere i nostri argomenti e il nostro umanesimo, non trovano di meglio che tacciarci di pregiudizi fideistici e di minorità intellettuale. Peccato per loro e per chi si fa incantare. Non per questo rinunceremo a dire al nostra e ad ascoltare chi vuol ragionare. Un saluto cordiale.
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