L'analisi di un nodo culturale che riguarda il domani comune
mercoledì 8 aprile 2020

Caro direttore,
le riflessioni di Luigino Bruni sul legame tra debito e colpa nelle lingue germaniche e nell’«umanesimo protestante » hanno interpellato anche chi scrive, tedesco residente in Italia da 13 anni, ministro di culto evangelico e di professione storico del cristianesimo. Premetto che condivido del tutto le conclusioni dell’autore, quando rileva che il periodo in cui viviamo richiede la condivisione, anche europea, delle preoccupazioni, del lutto e di interventi che rispondano al meglio alle esigenze di chi si ammala e/o si trova in una situazione di emergenza.

È davvero necessario «abbassare i toni» nelle discussioni di principio, come giustamente rileva l’autore. Per giungere a queste conclusioni, il professor Bruni sostiene che una mentalità (anche inconsciamente) protestante induce i Paesi a nord delle Alpi a identificare “colpa” ( Schuld) con “debito” ( Schulden), insistendo di conseguenza sulla disciplina di bilancio anche nelle circostanze attuali. I Paesi meridionali, invece, improntati al cattolicesimo, mostrano prevalentemente una “cultura della vergogna”, preoccupata più per l’apparenza che per la sostanza della colpa oppure del debito, ed è questa la dialettica che rischia di porre freno alla solidarietà. Prima di avviarsi alla giustissima esortazione finale, Bruni esorta (soltanto) i “Paesi nordici” a disimparare i loro (pre)concetti, adducendo come precedente storico l’abbandono del linguaggio nazista e fascista dopo la Seconda guerra mondiale. È questo l’elemento che mi porta a entrare in una discussione che potrebbe sembrare astratta. Anzitutto, da tedesco di madrelingua osservo che non ho mai sentito un legame essenziale tra “colpa” e “debito”; per me sono due cose diverse che a volte si sovrappongono. Vorrei mettere in guardia, dunque, da un passaggio troppo rapido dall’etimologia alla mentalità.

Da cittadino europeo, vorrei ricordare che il debito è una cosa reale, al di là dalla filologia. Il debito lega chi lo contrae a un’istanza esterna, che nel caso dei debiti sovrani è la famigerata finanza globale e capitalista. Si tratta di un fattore che per statuto non rientra nei processi decisionali delle democrazie e chi lo sottovaluta corre rischi grossi (vedi, ad esempio, l’Argentina). Per questo, anche se in questo momento non è la priorità, è giusto starci attenti, proprio per conservare la capacità di azione delle nostre democrazie.

A questo riguardo, non ci aiuta neanche la diffusa litania contro il capitalismo in generale. Suggerisco la lettura di un recente libro di Jeroen Linssen sull’avarizia ( Vantilt, 2019), in cui questo professore all’Università cattolica (!) di Nijmegen spiega come per secoli la teologia, di tutte le confessioni, abbia genericamente disprezzato e svalutato le pratiche economiche, che nel loro insieme hanno creato un incredibile benessere collettivo. Questo, ovviamente, non giustifica gli abusi, ma le nostre critiche del capitalismo devono essere all’altezza della situazione. Da storico del cristianesimo, mi sento di dire due cose.

1) Il libro “Peccato e paura” dello storico francese Jacques Delumeau (trad. it. Mulino, 2006) descrive come in tutta l’Europa, e in tutte le confessioni dei secoli XVI–XVIII, la riflessione sul peccato e la paura delle sanzioni abbiano avuto un impatto culturale straordinario. Non a caso, il confessionale è diventato una sede di spiritualità cattolica par excellence. Parlare di una “cultura della vergogna” tipica del cattolicesimo, come se fossimo ai tempi di Omero, mi sembra un luogo comune, importato forse dalla polemica protestante. 2) Sono perplesso sul parallelismo implicitamente delineato da Bruni tra il nazismo e il dissenso odierno sull’importanza del debito sovrano. Il primo è un fenomeno di violenza sistematica e genocida, il secondo esprime un disaccordo all’interno di condizioni di collaborazione e solidarietà internazionali maturate nel corso di decenni, con tutti i benefici che hanno dato, pur senza essere perfette, a milioni di persone.

È vero che recentemente il progetto europeo non naviga in buone acque; ciò non annulla, però, i suoi meriti (parola non molto protestante) già acquisiti. Infine, da teologo e ministro del Vangelo rilevo che la colpa è una cosa piuttosto reale, come lo sono ferite.

Quotidianamente sono in cerca di un linguaggio che possa dire “colpa” senza schiacciare le persone, ma in modo che si possano risollevare e convertire, un linguaggio che ricucia gli strappi senza offendere le vittime e senza annientare chi ha fatto male. Resta la mia bussola la croce di Cristo, paradigma di ingiustizia subita e al tempo stesso di assunzione di colpa, al posto dei tanti modi di identificare capri espiatori per esternalizzare le responsabilità. Una tale attitudine rischia di creare ulteriori danni perfino nei momenti dell’emergenza, interpretata, come succede in questi giorni, con metafore belliche che suggeriscono la chiusura, l’immobilità e l’idea secondo cui la “ritirata” è vergognosa, anche quando so che dovrei farlo. Infatti, è giusto “abbassare i toni”, ma senza che ciò voglia dire “tutti zitti!”, senza rinunciare all’ascolto di chi la pensa diversamente e senza rinunciare allo scambio e alla necessaria dialettica. Sono convinto che valga la pena parlarsi, anche in tempi difficili.

Storico del cristianesimo, Facoltà valdese di teologia

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