venerdì 4 novembre 2011
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​Caro direttore,
il "Quarterly Journal of Economics", in un articolo pubblicato a Washington nel mese di aprile del 1887, rileva l’insostenibile debito pubblico dei Paesi europei, formulando l’auspicio di un urgente risanamento dei loro bilanci, esplicitamente espresso nel seguente monito: «Le finanze d’Europa sono a tal punto compromesse dall’indebitamento generale, che i governi dovrebbero chiedersi se una guerra, malgrado i suoi orrori, non sia preferibile al mantenimento di una precaria e costosa pace». Ogni commento e ogni confronto con la situazione attuale mi pare superfluo.
Alfio Gervasutti
Oggi come mai prima, gentile signor Gervasutti, le guerre si combattono anche e soprattutto schierando "eserciti" non di soldati ma di miliardi di valute pregiate. Nessuno le dichiara formalmente queste guerre (che chiamiamo "crisi"), nessuno sembra in grado di fermarle, la gente normale – come ieri ha scritto assai bene Davide Rondoni sulla nostra prima pagina – nemmeno riesce a capire chi sia il "nemico" e, aggiungo, stenta persino a riconoscere l’alleato e l’amico. Ma le vittime sono come sempre gli esseri umani, e si contano a milioni. Nel Terzo Mondo, negli stessi Usa, ma ormai anche in casa nostra, nell’opulenta e protettiva Europa. Una spietata e redditizia speculazione sulle materie prime alimentari – o sul debito di uno Stato giudicato inaffidabile, ovvero vulnerabile e perciò attaccabile, secondo criteri in parte oggettivi e in parte fissati, come in ogni guerra, dagli stessi aggressori – produce infinitamente più morti di un bombardamento a tappeto. È come lo scoppio di un’atomica: tanti sono sterminati subito, altri muoiono poco a poco, le conseguenze letali permangono a lungo. E che accade? Accade che invece di assistere, e magari partecipare, a vaste e inorridite reazioni, ci si ritrova ad annotare che quei gruppi e fondi (ma potremmo definirli "corpi d’armata"), per quanto smascherati da alcuni controcorrente (e noi, nel nostro piccolo, facciamo quel che sappiamo e possiamo), vengono gratificati da lusinghiere classificazioni. Del resto, chi può negarlo? Loro, a differenza di certi Stati, il lavoro che si sono dati lo stanno facendo bene, addirittura benissimo… Fino a prova contraria. E una prova contraria, per la verità, ci fu. Proprio all’inizio di questa crisi che non finisce e che anzi ricomincia, come tutte le guerre non dichiarate e che nessuno si decide a fermare. Ma purtroppo quella prova – quella pistola fumante, il caso Lehman Brothers, che dimostrava la premeditata aggressione alla vita, al lavoro e alla speranza della gente – non è bastata a dare alla politica mondiale, ai cosiddetti Grandi, la forza di fare regole tempestive e chiare, di affidarle ad autorità globali credibili e rigorose, di accompagnarle con strumenti di riequilibrio (come la Tobin Tax) giusti ed efficaci. Non sto dicendo, gentile lettore, che vada bene fare debiti e pensare di non pagarli scaricandoli sulle generazioni successive. Non sto dicendo che bisogna fare una qualche rivoluzione (quelle vengono da sole quando il male si fa grande e la «collera dei poveri» divampa, e in genere producono altrettanto male). Sto dicendo che bisogna rimboccarsi le maniche, essere seri, e riconoscere tutte le minacce serie. Sto dicendo che nessuna guerra è buona, e nessuna è mai migliore della pace (non questa combattuta sui troppo liberi mercati, non certo quella in armi che qualcuno immagina, basandosi sui precedenti storici, come «igiene» di un mondo in crisi). Sto ripetendo che la vera pace – anche quella economica – è solo nella verità, nella libertà e nella giustizia. Che, per noi cristiani da sempre e con maggiore chiarezza dopo il Concilio Vaticano II, non sono mai disgiunte dall’amore. Sembra un discorso da anime belle, ma è la radice del problema ed è la base della risposta alle forze brutte e brutali che ci incalzano. Proprio nella situazione attuale, caro signor Gervasutti, ribadirlo non è affatto superfluo.
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