domenica 19 settembre 2010
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Quanto è applicabile nel Mezzogiorno d’Italia, e con una buona aspettativa di successo, la formula "meno Stato più società" che è il fulcro della "Big Society"? Ricordiamo, a vantaggio dei lettori, che la proposta rilanciata dal premier britannico David Cameron ha trovato larga eco nel dibattito pubblico italiano anche grazie alle parole convinte del ministro del Lavoro Maurizio Sacconi. Ricordiamo ancora, che in un programma realistico fondato su "meno Stato, più società", sono tre i fattori decisivi: un adeguato capitale sociale, corpi intermedi non corporativi, uno Stato cosiddetto "capacitatore", ovvero in grado di facilitare l’accesso a una pluralità di soggetti che erogano servizi. Dovendo analizzare la specificità del Mezzogiorno è indubitabile che un punto di frizione si registra in una complessiva debolezza delle sue classi dirigenti, che rende la presenza dello Stato ancor più fragile, soprattutto in vista di un processo devolutivo che un progetto come questo pretende. Senza dire che anche le spinte corporative, soprattutto nel blocco sociale edile-urbano-finanziario-professionale, sono ancora oggi fortissime e tali da condizionare un processo di espansione della libera società civile. Eppure, per paradosso, la forza della "Big Society" sta proprio nello spostamento del fulcro dell’intrapresa, dal capitale finanziario al capitale sociale. E questo è il vero fattore competitivo che dovrebbe avvantaggiare il Sud. Dove, infatti, è concentrata la più ampia porzione di giovani italiani con titoli di studio superiori e privi di occupazione, se non nel Mezzogiorno d’Italia? Tutto sta a liberare le risorse minime necessarie per avviare processi di autorganizzazione comunitaria e al tempo stesso far sì che questo avvenga senza l’intermediazione della politica. Se, infatti, la "Big Society" al Sud dovesse nascere per impulso della politica meridionale, già partirebbe con un irrimediabile difetto di origine, perché c’è più di un motivo per temere che ne erediterebbe i peggiori vizi e li clonerebbe. Eppure, è necessario liberare spazi per l’azione sociale e le amministrazioni del Mezzogiorno dovrebbero trovare la forza per riconoscere opportunità e consentire iniziative. Dai servizi per gli anziani alla manutenzione del verde di quartiere, dalla mobilità interna al territorio cittadino alla facilitazione burocratica, dai servizi per l’infanzia alle attività sportive locali, ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta. Per non parlare di quello che già è nato negli anni più recenti e che ha il marchio d’origine inconfondibile della società civile: le comunità di accoglienza per i tossicodipendenti, le case famiglia, il sostegno a distanza, le associazioni familiari, il microcredito, le imprese sociali, il banco alimentare, i gruppi di acquisto solidale. Già messe così in fila, le esperienze sul territorio sono migliaia, per non parlare del capitolo dei beni confiscati alle mafie, già affidati ai giovani meridionali perché li rendano economicamente produttivi, socialmente utili e pedagogicamente esemplari. A tutto questo, infine, va aggiunto che una promozione effettiva può venire anche dall’estensione del 5 per mille e da un sistema fiscale che favorisca davvero la famiglia e le associazioni delle famiglie. Tutto questo, si dirà, vale per l’Italia intera. Giusto, ma fatte le debite proporzioni, può valere il doppio al Sud, considerate le sue basi di partenza e soprattutto le sue attuali difficoltà. Fa un po’ rabbia, infatti, prendere atto delle parole di Philip Blond, il teorico della "Big Society" in versione Cameron. Da lui il riconoscimento che «in alcune parti dell’Italia, per esempio la Lombardia, la mia idea è già una realtà». Il che ha fatto dire, con orgoglio, ad alcuni analisti settentrionali: «La Big Society all’italiana c’è già da un pezzo. E non a caso abita le zone più sviluppate del Paese». Ecco, ci piacerebbe scrivere, di qui a qualche tempo, che almeno su questo terreno sociale, il Sud non è rimasto ancora una volta indietro.
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