La cruna della parola attesa
domenica 15 ottobre 2017

«Se Dio c’è, oggi ha più che mai bisogno di qualcuno che, se non sa dire chi egli è, dica almeno chi non è. Noi abbiamo bisogno di cambiare Dio per conservarlo, e perché lui conservi noi». Paolo de Benedetti, Quale Dio?

Quando e se un giorno arriva l’incontro con la Bibbia, se è un incontro casto (perché non usa la Bibbia per la propria felicità), libero (perché pronti a scoprire nuove realtà e a cambiare, veramente, ogni convinzione sulla religione) e gratuito (perché non vuole convertire nessuno tranne il proprio cuore), l’amicizia con la parola biblica diventa una meravigliosa educazione all’intimità della parola e delle parole. Si comincia finalmente ad amare i poeti, a capirli di più e diversamente, cominciamo a ringraziarli nell’anima. Si scopre la profondità della sapienza, si impara a distinguerla dall’intelligenza e dai talenti naturali, e quindi a trovarla, abbondante, tra i poveri – e poi ci si mette ad ascoltarli per imparare. Se poi si ha il coraggio e la resilienza per arrivare fino ai profeti, le scoperte diventano via via più sconvolgenti e grandi. Si intuisce, ad esempio, qualcosa del rapporto tra le diverse parole presenti nella Bibbia. Si capisce che quando la parola di YHWH arriva, in vari modi e tempi, nell’anima dei profeti è solo parola di Dio, ma non appena dall’anima giunge alla bocca e poi viene detta, diventa anche parola di Geremia, di Isaia, di Amos.

L’intera Bibbia è il frutto di questo dialogo stupendo tra logos e carne, parola ospitata nell’anima e parola detta con la bocca, tra obbedienza e libertà. Questa parola è tutta di Dio, è tutta del profeta, è tutta del rapporto tra il profeta e Dio. Ci si affaccia così sul mistero trinitario della parola biblica. Ma se il cammino procede e salva lungo la strada soprattutto la libertà, dall’incontro con l’intimità della parola si può approdare anche a un’altra idea ed esperienza di Dio, persino del suo fondamento. Si inizia a conoscere un altro Dio, lo si vede uscire dalle religioni e dai templi per trasferirsi nelle fabbriche, dentro i barconi degli immigrati, nelle sale gioco, sulle strade desolate della notte. Gli idoli amano gli altari e i sacrifici, il Dio biblico sta comodo soltanto nei luoghi che un dio come-si-deve non dovrebbe frequentare. Perché solo lì riesce, ogni giorno, a risorgere. Le religioni non reggeranno l’onda d’urto di dolore e amore del terzo millennio se non diventeranno qualcosa di diverso da quello che sono state nei millenni precedenti. E se il cristianesimo avrà un futuro come umanesimo religioso (e non solo come cultura e tradizione) sarà un cristianesimo che rinascerà, ancora una volta, dalla Bibbia.

In quel "resto" di Giuda che non era stato deportato a Babilonia, ora accampato presso Betlemme, c’era anche Geremia. Quel gruppo di superstiti è costernato e smarrito, non sa cosa fare. E così attingono alla risorsa estrema. Vanno da Geremia e gli dicono: «Prega per noi YHWH, tuo Dio, in favore di tutti questi superstiti... Chissà che YHWH, tuo Dio, ci indichi la strada da percorrere e che cosa fare» (42,2-3). Parole piene di fiducia, che sembrano, e forse sono, sincere. Geremia risponde: «Io vi ascolto! Pregherò secondo il vostro desiderio YHWH, vostro Dio. E tutto ciò che YHWH, vostro Dio, risponderà, ve lo annuncerò senza nascondervi una sola parola» (42,4). Ed essi risposero: «Che ci sia gradita o no, noi ascolteremo la voce di YHWH, nostro Dio» (42,6). Un dialogo molto bello, ricco di emozioni e di pathos, di confidenza reciproca, dove YHWH da «tuo Dio» diventa, alla fine, «nostro Dio». Parole che potrebbero aprire a un cambiamento radicale nell’atteggiamento del popolo, provato e reso mite dal tanto patire.

Passa il tempo, e solo dopo «dieci giorni» (42,7) Geremia riceve la parola. Dieci giorni lunghissimi per una comunità impaurita, sbandata, ferita. Possiamo immaginare i movimenti del cuore e dei corpi in quell’accampamento in Betlemme. Giovanni, e gli altri comandanti, si saranno avvicinati alla tende di Geremia, e magari, qualche volta, avranno osato varcare la soglia per chiedere se era arrivata la parola per loro. Perché Geremia aspettò dieci giorni, in quel tempo così tremendo, quando i giorni sono lunghi come mesi o anni? Semplicemente perché i profeti, quando parlano in nome di Dio, non sono padroni né del contenuto né dei tempi di quella parola. I falsi profeti parlano a comando, perché, semplicemente, non hanno nulla da dire di vero. Questo lungo tempo che trascorre tra la domanda e la risposta è l’ennesima prova dell’onestà di Geremia, della verità della sua profezia. I profeti sono mendicanti della parola diversa che devono annunciare. Chiedono, e poi possono solo attendere, poveri come tutti, mai certi che quella parola arriverà. Sono sentinelle ignoranti della notte (Isaia 28), che possono e devono ascoltare e accogliere tutte le domande senza poter dare tutte le risposte. Il profeta è l’uomo e la donna dell’attesa, che ogni volta si sorprende e commuove perché quella parola che poteva venire è venuta davvero – chissà cosa provano i profeti in quell’attimo in cui sentono che la parola si sta formando nel loro seno!? Ogni parola vera, donata, è un parto, che richiede tutto il tempo della gestazione, le doglie, il travaglio. La parola vera può diventare carne solo nella pienezza del tempo – quella terra di Betlemme lo rivedrà.

Geremia era cosciente che il clima di fiducia si stava deteriorando ora dopo ora, che la probabilità di accoglimento della parola che stava maturando in quell’attesa diventava ogni minuto più piccola. Avrà avuto da subito la sua opinione circa la scelta giusta che il popolo avrebbe dovuto fare, ma aveva imparato in tutta la sua lunga vita a distinguere la voce dell’uomo Geremia da quella che YHWH gli sussurrava dentro. Avrà anche pensato che la parola attesa da YHWH sarebbe stata, molto probabilmente, simile a quella che gli aveva detto altre volte – fidatevi dei Babilonesi, e restate in patria sotto la loro protezione. Ma scelse di attendere fino alla fine.Forse quei lunghi dieci giorni furono necessari perché forte era la voce della sua opinione personale. Più forti sono nel profeta onesto le proprie idee, più difficile e lento deve essere il processo di discernimento degli spiriti. Questo processo, delicatissimo, non sempre giunge a compimento. Una delle tipiche sofferenze dei profeti con personalità forti (come Geremia) sta nell’impedire alle proprie idee di coprire la voce di Dio – è molto facile che un profeta vero con una forte personalità si trasformi in falso profeta, se la forza della propria voce azzittisce l’altra voce. I "peccati contro lo Spirito Santo" non sono perdonabili soprattutto ai profeti. Altre volte il processo si inceppa perché la gravità di certi momenti e la compassione del profeta per la propria gente che soffre nell’attesa gli fanno accelerare i tempi, e la risposta giunge nell’ottavo o nel nono giorno. Quel giorno non atteso è il giorno decisivo. Una delle qualità più preziose dei profeti è riuscire a resistere sotto la tenda mentre la gente si accalca attorno, e chiede, piange e grida perché arrivi il dono della parola.

Geremia riuscì ad arrivare al decimo giorno, e, finalmente, parlò. Ma chi ci dice che dieci giorni erano davvero il tempo buono, che il giorno giusto non fosse invece l’undicesimo o il ventesimo? È la Bibbia che ce lo dice, perché se Geremia, in quel passaggio decisivo della sua vita e di quella del popolo, avesse sbagliato giorno, tutto sarebbe cambiato, la sua vicenda si sarebbe conclusa diversamente, e forse il suo libro non sarebbe arrivato fino a noi, o sarebbe arrivato molto diverso. È questa la misteriosa ma vera "infallibilità" della parola biblica. «YHWH, Dio d’Israele, al quale voi mi avete mandato per presentare a lui la vostra preghiera, così ha parlato: "Se voi rimanete in questo paese, io vi edificherò senza più distruggervi, vi pianterò senza più sradicarvi"» (42,9-10). La parola che Geremia ricevette per il popolo fu una parola grande, forte, importante. Vi ritroviamo dentro le parole vocazionali di Geremia, quelle del primo giorno. Ma questa volta non sono le stesse parole. A Geremia YHWH disse che avrebbe «edificato e distrutto, piantato e sradicato» (1,10). Ora, alla fine della sua vita, riceve una parola che diventa anche il compimento della sua vocazione: non distruzione e sradicamento, ma soltanto costruzione e nuova vita. In quei dieci giorni non maturò soltanto una parola per il popolo, quell’attesa generò anche una parola nuova per Geremia.Ma, nel frattempo, in quei dieci lunghissimi giorni molte cose erano cambiate. I sentimenti di nuova fiducia e di confidenza reciproca erano radicalmente mutati. La paura e l’insicurezza avevano di nuovo preso il sopravvento, e il "cesto di fichi" rimasto in Giuda si mostra, nuovamente, marcio (cap.24). E dicono a Geremia: «Una menzogna stai dicendo! Non ti ha inviato YHWH, nostro Dio, a dirci: Non andate in Egitto per dimorarvi» (43,2). La lunga attesa generò una parola vera, ma rifiutata dalla comunità, nonostante le solenni promesse di ascolto che avevano fatto a YHWH e a Geremia.

Questo insuccesso di Geremia ci aiuta a intuire qualcosa di più del senso di quella attesa, e della sua vocazione. «Chissà come avrebbe risposto il popolo all’oracolo di YHWH se avessi parlato subito, senza attendere tutti questi giorni?». «Avrebbe ugualmente scelto di disobbedire?». Forse Geremia si sarà fatto queste domande dopo l’ennesimo fallimento della sua parola, soprattutto se in quel decimo giorno si accorse che la parola di YHWH era esattamente la parola che lui avrebbe dato immediatamente. O, forse, la parola di restare in patria maturò solo nell’ultimo minuto del decimo giorno. Non lo sappiamo. Sappiamo solo che la parola del primo e quella del decimo giorno, anche quando sono uguali nella lettera, non lo sono nello spirito. Geremia per esperienza poteva sapere che al 99% la parola sarebbe arrivata e sarebbe stata simile alla sua. Ma c’era quel piccolissimo 1%, un grano di senape che può spostare le montagne, quella cruna diversa dove qualche volta passano i cammelli. Geremia ha dovuto rischiare tutto per salvare quella infinitesima possibilità. I profeti sanno fare solo questo. Anche noi qualche volta ci siamo salvati perché qualcuno ha voluto credere nella probabilità dell’1% della nostra innocenza e bellezza, quando il 99% diceva il contrario. Nell’accampamento di Betlemme il popolo non riuscì a passare per quella cruna. Ma noi, grazie alla fedeltà di Geremia, possiamo continuare a sperare.

l.bruni@lumsa.it

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