martedì 24 giugno 2025
Bersagli, senza una motivazione se non quella di essere simbolo di una diversità, vuoi religiosa, vuoi sociale, vuoi storica da cancellare in una società che si va rimodellando con la violenza...
La chiesa devastata in Siria

La chiesa devastata in Siria - ANSA

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«Perché ci hanno colpito? Non abbiamo interessi, se non quello di vivere in pace in Siria. Non abbiamo armi e non siamo contro nessuno, né domandiamo posizioni di governo. Perché tutto questo è accaduto contro la nostra popolazione pacifica?». L’angoscia di Bassim Khoury, cristiano di Damasco subito dopo la strage di domenica sera alla chiesa greco ortodossa di Mar Elias può essere interpretato come il “cantus firmus” di tanti, se non tutti i cristiani d’Oriente. Essere stranieri nella propria nazione, sentirsi respinti, anzi diventare un vero e proprio obiettivo da colpire nella terra in cui si vive da due millenni e di cui si custodisce una preziosissima eredità spirituale e storica.

Bersagli, senza una motivazione se non quella di essere simbolo di una diversità, vuoi religiosa, vuoi sociale, vuoi storica da cancellare in una società che si va rimodellando con la violenza. Uno spartito suonato con diverse tonalità in questi ultimi due decenni in Medio Oriente dalle comunità cristiane, un doloroso lamento che non si riesce a percepire ora sotto i boati delle Mop sganciate dai B-2 statunitensi sugli impianti nucleari dell’Iran o il sibilo mortale dei missili Qassem Bassir iraniani su Tel Aviv.

Ma, in un Medio Oriente infuocato da un conflitto a dimensione regionale, la sopravvivenza dei cristiani mediorientali è sempre più in pericolo. L’attentato di domenica sera a Mar Elias, con le sue trenta vittime, riporta subito alla memoria un’altra strage contro i cristiani: quella del 31 ottobre 2010. Era la vigilia della festa di “Ognissanti” quando un manipolo armato di al-Qaeda fece irruzione durante la Messa nella chiesa di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso a Baghdad: 48 i “martiri” iracheni compresi padre Thaer Abdal e padre Wassim Kas Boutros.

Due anni prima, il 29 febbraio del 2008, il vescovo caldeo Paulos Faraj Rahho era stato rapito e poi ucciso dai suoi stessi sequestratori di al-Qaeda a Mosul, la futura “capitale” del Daesh nel nord dell’Iraq. Due date simbolo a segnalare il progressivo spopolamento prima interno – da Baghdad verso il Kurdistan – e poi dall’Iraq all’estero con il miraggio di raggiungere la diaspora in Europa, Usa o Australia. Una sorte simile a quella dei cristiani in Libano nella tenaglia, però, della catastrofe economica. E lo stesso potrebbe accadere in una Siria senza un governo stabile e inclusivo, in cui milizie estremiste possono avere facilmente il controllo di parte del territorio e colpire, oltre a cristiani, alauiti e drusi.

Il timore, praticamente certezza, è che ora nel nuovo Medio Oriente che si va disegnando – un crimine di guerra dopo l’altro – dal 7 ottobre in poi, la minoranza cristiana vada perdendo le residue possibilità di permanenza nella sua terra di origine. Possibilità che, sia pure in misura attenuata, riguarda pure la Terra Santa. L’equazione è semplice. I cristiani mediorientali, da un lato, sono percepiti dai fondamentalisti islamici come naturali fiancheggiatori dell’Occidente e per questo un simbolo facile da colpire e con enorme risonanza mediatica. I cristiani mediorientali, d’altra parte, in società riplasmate da attese millenaristiche di regimi teocratici e di destre fondamentaliste, sono una minoranza da strumentalizzare per fini politici, non cittadini.

La sorte di queste comunità è un dilemma aperto: il Libano, con il delicato equilibrio confessionale stabilito nel 1989 dagli Accordi di Taif è indicato come un modello da cui partire, ma da anni ormai Beirut è la capitale di uno Stato fallito più che un laboratorio per il futuro del Medio Oriente. Chiave di una possibile convivenza nel pluralismo culturale e religioso è indubbiamente il Documento di Abu Dhabi sulla Fratellanza umana.

Papa Francesco e il grande iman Al-Tayyeb, oltre alla «protezione dei luoghi di culto» invitavano le società del Mediterraneo a elaborare un modello di convivenza basato sul «concetto di cittadinanza» e rinunciando «all’uso discriminatorio del termine minoranze, che porta con sé i semi del sentirsi isolati e dell’inferiorità». Premessa a questo obiettivo, ora quanto mai lontano, non può essere la ricerca di un regime change (cambio di regime, ndr) al suon di bombe o rivoluzioni fomentate dall’esterno – con imprevedibili effetti domino – ma il ritorno alla diplomazia. E poi alla possibilità di convivenza di cui i cristiani mediorientali sono per lora natura una garanzia. Questa migrazione forzata, ha ricordato il cardinale Bechara Rai, patriarca maronita di Beirut «sta riducendo il numero dei cristiani che, in Medio Oriente, hanno contribuito alla formazione di un islam moderato. Se il Medio Oriente si svuoterà di cristiani, i musulmani perderanno la loro moderazione».

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