giovedì 13 gennaio 2011
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Mai crisi politica fu tanto annunciata: con il ritiro dalla coalizione di governo dei dieci ministri facenti capo agli sciiti di Amal, al "partito di Dio" Hezbollah e ai cristiani della Libera corrente patriottica del generale Aoun, cui se n’è aggiunto un undicesimo di nomina presidenziale – quanto basta cioè a superare un terzo dell’esecutivo – il Libano si ritrova da ieri nella palude dell’ingovernabilità e a un passo dal precipizio, dopo che la soluzione di compromesso proposta da siriani e sauditi è fallita, si dice sia per l’intransigenza americana sia su istigazione di Teheran.Il nodo del contendere – come è noto – è la conclusione dell’indagine di quel Tribunale speciale istituito dall’Onu per fare luce sull’assassinio di Rafik Hariri, ucciso nel 2005. Molte voci indicano nella Siria e nel movimento Hezbollah rispettivamente il mandante e l’esecutore dell’attentato che costò la vita al premier sunnita e ad altri 22. Da mesi si parla di prove schiaccianti nei confronti di un gruppo di singoli militanti del "partito di Dio" (molti dei quali opportunamente scomparsi, emigrati, a volte eliminati fisicamente), che secondo il Tribunale (che ha sede in Olanda ed è presieduto dall’italiano Antonio Cassese) avrebbero adoperato un comune lotto di telefoni cellulari a ridosso dell’ora dell’attentato al premier.Gli Hezbollah – su tutti la loro guida spirituale, lo sceicco Hassan Nasrallah – hanno sempre respinto ogni possibile addebito, minacciando il caos e la guerra civile nel caso il premier Saad Hariri (figlio di Rafik) accogliesse le conclusioni del Tribunale speciale. A corredo, l’opposizione libanese accusa Israele e Stati Uniti di aver fabbricato false prove e di aver coartato l’indipendenza dei giudici allo scopo di screditare il movimento sciita.Un grande intrigo, che tuttavia, semplificando, ci induce due considerazioni. La prima è che il Libano, a dispetto della sua affascinante commistione fra tradizione e modernità, la sua caparbia marcia verso un benessere diffuso sconosciuto al resto del mondo arabo e soprattutto la capacità funambolica della sua gente di far coesistere con non eccessivi attriti tredici diverse confessioni religiose non è ancora purtroppo da annoverarsi fra le democrazie mature. Minacciare come fanno gli Hezbollah un colpo di Stato nel timore di una sentenza indigesta da parte di un tribunale indipendente appartiene più alle modalità dei califfati mamelucchi e ottomani che alle moderne democrazie parlamentari. E del "golpe" vi fu una sorta di prova generale nel 2008, quando il "partito di Dio" mise in stato d’assedio il Paese paralizzando trasporti, comunicazioni, frontiere, vita sociale mentre il governo Siniora viveva asserragliato quanto impotente nel cuore di Beirut.Da qui discende la seconda considerazione. Sia Teheran (grande elemosiniere degli sciiti), sia Damasco (grande rifornitore di armamenti in spregio alla risoluzione 1701 dell’Onu che impone il disarmo dell’ala militare di Hezbollah) hanno tutto l’interesse a mantenere il Paese dei Cedri in una condizione di instabilità permanente, oscillante fra l’ingovernabilità e il rischio dello scontro di piazza: un Libano pacificato, dalla vigorosa crescita economica (6,3% nel 2009, 5,8% nel 2010, con 130 miliardi di dollari di impieghi bancari) e con forte tendenza a divenire l’Eldorado del Medio Oriente allarma l’Iran e la Siria molto più dell’ultradecennale ostilità con Israele perché li priverebbe della loro influenza e metterebbe il movimento Hezbollah in una sorta di remota minorità politica.Cosa accadrà ora? Davvero vedremo ripiombare il Libano nelle sabbie mobili di una sorta di guerra civile a bassa intensità? Il messaggio degli Hezbollah è più che esplicito: permettere al Tribunale speciale di formulare le proprie accuse significa accendere il fuoco della rivolta sciita. Respingerla potrebbe forse rimettere in gioco la fragile coalizione uscita dalle elezioni del 2009. Sono in molti a soffiare sulla brace che cova sotto la cenere. Spegnere quei focolai sarà davvero il compito più difficile per il giovane Saad Hariri e il presidente Sleiman.
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