martedì 12 luglio 2016
​Un nuovo leader per l'ultima nazione in cerca di patria. Il presidente Ghali: prima o poi avremo l'indipendenza.
Venti di guerra nel Sahara dei «senza patria»
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«Finché il Marocco continuerà ad occupare la nostra terra, l’opzione militare resterà sul tavolo». Brahim Ghali batte il pugno sul leggìo, mentre scandisce il concetto. È il 9 luglio ed è appena stato eletto nuovo presidente della 'Republica Arabe Saharaui Democratica' (Rasd). I 2.400 delegati del Congresso lo acclamano, affollando la sala allestita nella wilaya di Dakhla. Sul palco, campeggia l’immagine di Mohamed Abdelaziz, il vecchio presidente, scomparso lo scorso 31 maggio, dopo una lunga lotta contro un male che non gli ha lasciato scampo. Fuori, la canicola sfiora i 50 gradi. È l’Hammada algerina, uno dei tratti di deserto più inospitali al mondo. Qui, nei campi rifugiati della zona di Tindouf, dal 1975 vive in esilio un intero popolo, quello dei saharawi. Una nazione ancora in cerca di patria. L’ultima colonia d’Africa. «Siamo ancora uniti, dopo quarant’anni – ribadisce Ghali – la nostra unione è un messaggio importante per l’occupante marocchino». 

Nato a Smara, sessantasei anni fa, Brahim Ghali torna alla guida del 'Frente popular de liberación de saguia el hamra y río de oro' (Polisario) dopo quarantatré. Era stato lui, infatti, il primo segretario del movimento, nel 1973. Poi gli incarichi istituzionali e diplomatici. Dapprima il ministero della Difesa, quindi il lavoro come rappresentante e ambasciatore in Spagna e in Algeria. Era stato Abdelaziz a richiamarlo da Algeri, durante lo scorso Congresso, tenutosi a dicembre. Da più parti, era sembrata un’investitura. Di fatto, Ghali è corso da solo. L’assemblea straordinaria lo ha indicato come candidato unico. E lo ha votato con il 93 per cento dei consensi. «Forza, determinazione e tenacia possono imporre l’indipendenza e la sovranità», dice Jalihena Mohamed, rappresentante degli studenti saharawi, prendendo a prestito lo slogan del Congresso. 

«Abbiamo un nuovo leader – afferma – ora bisogna fare in fretta. L’attesa dura ormai da troppi anni. I giovani, specie qui ai campi, sono stanchi di questa situazione».ato a Smara, sessantasei anni fa, Brahim Ghali torna alla guida del 'Frente popular de liberación de saguia el hamra y río de oro' (Polisario) dopo quarantatré. Era stato lui, infatti, il primo segretario del movimento, nel 1973. Poi gli incarichi istituzionali e diplomatici. Dapprima il ministero della Difesa, quindi il lavoro come rappresentante e ambasciatore in Spagna e in Algeria. Era stato Abdelaziz a richiamarlo da Algeri, durante lo scorso Congresso, tenutosi a dicembre. Da più parti, era sembrata un’investitura. Di fatto, Ghali è corso da solo. L’assemblea straordinaria lo ha indicato come candidato unico. E lo ha votato con il 93 per cento dei consensi. «Forza, determinazione e tenacia possono imporre l’indipendenza e la sovranità», dice Jalihena Mohamed, rappresentante degli studenti saharawi, prendendo a prestito lo slogan del Congresso. «Abbiamo un nuovo leader – afferma – ora bisogna fare in fretta. L’attesa dura ormai da troppi anni. I giovani, specie qui ai campi, sono stanchi di questa situazione».

Sul tavolo c’è una questione su tutte: ritornare o meno alla guerra contro il Regno di Marocco. Uno scenario evocato spesso, negli ultimi anni, senza mai concretizzarlo. L’apparato del Polisario, in questi anni, ha continuato a contenere la disperata impazienza dei giovani, cercando di dar tempo alla diplomazia. Ma quella militare resta un’opzione. «Il martire Abdelaziz ha indicato una strada pacifica – spiega il neopresidente Ghali –, la via del rispetto delle norme internazionali. Vogliamo seguirla. E speriamo che il nostro avversario e la comunità internazionale non ci costringano a riprendere le armi. Non è mai stata la nostra volontà. E sarebbe un fallimento per tutti». Del resto, quella del Sahara Occidentale è la storia di una decolonizzazione rimasta sulla carta. E di interessi geopolitici che si intrecciano e si scontrano, tra il Maghreb e l’Europa meridionale. Tutto ha inizio nel 1975, quando la Spagna, ex colonizzatrice, si ritira dall’allora Sahara spagnolo, con la promessa di rendere possibile il referendum sull’autodeterminazione del popolo saharawi, chiesto dalle Nazioni unite già dal 1966 e mai tenuto.

Il Marocco di re Hassan II, il 6 novembre del 1975, raccoglie il testimone dagli spagnoli, occupando per metà il Paese con una 'marcia verde' di 350mila coloni. L’altra metà viene invasa dalla Mauritania, che si ritira pochi anni dopo. Il popolo saharawi è costretto a fuggire e si rifugia nei campi profughi di Tindouf, nel sud-est dell’Algeria. È allora che il Polisario dà inizio alla guerra di liberazione, che ha insanguinato questo lembo di deserto per almeno tre lustri, fino al cessate il fuoco decretato dall’Onu nel 1991. Da quel momento, i caschi blu della missione Minurso vegliano sul rispetto della tregua e tentano di creare le condizioni per la tenuta del referendum. Ma a distanza di venticinque anni nulla è cambiato. La Rasd resta riconosciuta dall’Unione africana ma non dall’Onu. Ne fanno parte alcuni scampoli di deserto a est del muro de la verguenza, la barriera lunga 2.700 chilometri e interamente minata, che il Marocco ha eretto nel deserto, tagliando in due il Paese. Il 27 febbraio scorso, la Repubblica ha festeggiato i suoi primi 40 anni a Bir Lehlou, dove venne fondata e dove è stato seppellito Mohamed Abdelaziz. Proprio qui il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon, ha definito 'un’occupazione' quella da parte di Rabat, durante la sua storica visita dello scorso 5 marzo. «Il Marocco ha reagito espellendo gran parte del personale civile della Minurso – osserva Ghali – un comportamento inaccettabile. Così come lo è quello della Francia, il cui parere sull’autodeterminazione, in seno all’Onu, è sempre stato contrario». Un mosaico di interessi trasversali che, almeno fino a oggi, ha reso impotente la comunità internazionale.

«Il Marocco è stato in grado di imporre un completo blackout mediatico su questa vicenda – spiega Jalil Mohamed, giornalista di Rasd Tv, la televisione saharawi –, ogni giorno avvengono violazioni dei diritti umani nei territori occupati. Allo stesso modo, prosegue la spoliazione delle risorse naturali del Sahara. Pesce e fosfati, il nostro oro. Noi cerchiamo di rompere il blackout, veicolando le informazioni da ambo i lati del muro e soprattutto all’esterno». «Chi ha condotto il Polisario finora ha delle responsabilità – obietta Said Zarwal, direttore della rivista 'Futuro Sahara', una delle voci critiche in seno al movimento – non c’è stato un cambio generazionale, né se ne intravede uno all’orizzonte. La stessa elezione di Brahim Ghali non è che una conferma del vecchio apparato. Noi l’avevamo annunciata nel 2015. Finché non si darà fiducia ai giovani, non si potrà uscire da questa situazione».

«Io credo che il Polisario meriti ancora l’appoggio e l’apporto di tutti i saharawi», dice Brahim Dahane, noto attivista per i diritti umani di Al Aaiun, la capitale occupata. Nel 2009 venne arrestato dalle autorità marocchine assieme ad altri sei attivisti saharawi e rinchiuso nel carcere di Salé. Aveva beffardamente varcato il muro 'de la verguenza'. Subì un processo lungo un anno e mezzo, prima di essere rilasciato. Spiega la situazione ai due lati del muro: «Molti giovani dei campi rifugiati e della diaspora – dice – propendono decisamente per la ripresa della lotta armata. Poi ci sono i loro coetanei dei territori occupati, che invece continuano a portare avanti una intifada pacifica nel cuore stesso del territorio in mano al Marocco. È questa la via da seguire. Presto porterà frutti».

Nel 2009 era stato lo sciopero della fame della nota attivista Aminatou Haidar a catalizzare, per una volta, l’attenzione sul Sahara Occidentale. Un movimento che ha raggiunto il suo apice nel 2010, quando andò in scena la grande protesta di Gdeim Izik, nei pressi di Al Aaiun. 'Il campo della dignità', definito da Noam Chomsky come il vero inizio della 'primavera araba', radunò per un mese 25mila saharawi, prima che l’esercito marocchino lo mettesse a ferro e fuoco. Nel 2013, 24 attivisti vennero condannati dal tribunale militare di Rabat a pene che vanno dai 20 anni all’ergastolo, per i fatti di Gdeim Izik. «L’intifada per l’indipendenza è una priorità – dice ancora Ghali – il popolo saharawi vuole la pace. Ma vuole anche quello che gli spetta. E lo otterrà. Per una via o per l’altra».

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