Coscienza ambientale, ma ora serve agire
sabato 29 luglio 2017

Se dobbiamo cercare un barlume di positività nelle emergenze ambientali di questi giorni (riscaldamento globale, siccità, incendi, rischio di scarsità dell’acqua) è che esse riescono a far riflettere i media e l’opinione pubblica sulla gravità del problema. Rivelando però il solito limite dell’umanità e ancor più del Paese, il nostro, in cui si riflette su ciò che si sarebbe dovuto programmare solo quando la tragedia è già scoppiata o appare imminente.

Se ai nostri lettori fa impressione vedere abbassarsi il livello delle acque del lago di Bracciano (con il rischio del razionamento dell’acqua in numerosi quartieri di Roma) si pensi cosa significa (anche in termini di flussi migratori attesi) in un subcontinente povero come il Sahel – dove una popolazione enorme insiste su un numero limitato di risorse naturali – il prosciugamento progressivo del lago Ciad. Che è fonte vitale di sostentamento per circa 30 milioni di residenti e la cui capienza si è ridotta del 95 per cento negli ultimi 45 anni passando da 25mila km quadrati nel 1963 a 2mila a fine 2016.

Forse alla luce di quanto sta accadendo in questi giorni anche i più scettici si staranno convincendo che la recente enciclica ambientale del Papa Laudato si’ è lucida profezia e non stravaganza. Sono decenni che in realtà di frontiera (banche etiche, finanza etica, prodotti bio e solidali, ecc.) la società civile si occupa del problema della responsabilità ambientale. Per sintetizzare l’odierna situazione ambivalente possiamo dire che la battaglia culturale è vinta, il mondo sta invertendo faticosamente la rotta ma non sappiamo se faremo in tempo a evitare catastrofi ben più gravi, anzi in molti casi prevale il pessimismo sul fatto che ce la faremo. Paradossalmente in questa fase storica le imprese (anche le grandi imprese transnazionali) sembrano essere più avanti dei governi invischiati in problemi di piccolo cabotaggio come il dover far quadrare le scelte politiche con il sondaggio elettorale del giorno dopo.

Ha destato stupore il fatto che la Volvo abbia annunciato qualche giorno fa di voler produrre solo motori ibridi o elettrici a partire dal 2019 ed è facile verificare confrontando le interviste degli amministratori delegati di Enel ed Eni il cambiamento di prospettiva e l’attenzione verso il tema delle rinnovabili e della sostenibilità ambientale. Anche negli Stati Uniti alla nota stonata di Trump fa da contrappeso la Exxon che ha confermato la propria adesione agli accordi di Parigi.

Le imprese sono più avanti per due motivi molto semplici. Per verificare le loro prospettive di sostenibilità economica devono formulare scenari per gli anni a venire e sono consapevoli della gravità del problema e dei rischi crescenti che verosimilmente spingeranno le istituzioni ad inasprire ulteriormente il quadro regolamentare. Il partito laburista olandese ha annunciato che proporrà il divieto dei motori a benzina per il prossimo futuro e il governo indiano ha inserito la decisione nella sua programmazione in una data che appare ancora lontana (2030). Non è un caso che già oggi il rischio reputazionale ambientale (l’indicatore RepRisk sempre più utilizzato dagli investitori) sia correlato, al netto di tutte le altre variabili esplicative standard, con una riduzione del rapporto prezzo/utili delle imprese quotate a livello mondiale. Traducendo, ciò significa che gli investitori finanziari scontano già oggi in termini di utili futuri attesi più bassi il fatto che un’impresa sia esposta al rischio ambientale (ovvero che i suoi utili dipendano da tecnologie che rischiano di diventare troppo inquinanti e obsolete). Sempre più frequenti sono le lettere che i fondi d’investimento indirizzano agli amministratori delegati delle aziende in cui investono per chiedere di ridurre l’esposizione al rischio ambientale in modo da non mettere a repentaglio i risparmi dei propri investitori.

Il secondo motivo che sta spingendo rapidamente le aziende a cambiare è che la sostenibilità ambientale è una rivoluzione tecnologica che ci chiede di reinventare tutti i prodotti che usiamo per sostituirli con analoghi a minor impatto ambientale. E come tale è una grande occasione di business. La battaglia culturale è vinta ma non possiamo accontentarci di questo perché l’inversione di rotta è troppo lenta e non sappiamo se ce la faremo a guarire il pianeta o almeno a stabilizzarlo evitando malattie più gravi. In una lettera che un gruppo importante di multinazionali scrissero ai capi di governo in occasione di Cop21 si chiedevano nuove regole del gioco per poter spingere in avanti la rivoluzione della sostenibilità ambientale.

Soltanto la compresenza di migliori strumenti informativi, di una maggiore consapevolezza dei cittadini chiamati a votare col portafoglio e a cambiare stili di vita e una riforma delle regole di policy coraggiosa da parte dei governi potranno accelerare il cammino e dirci tra qualche decennio se ce l’avremo fatta o meno a salvare il pianeta per noi e per le generazioni future.

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