domenica 8 agosto 2010
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Badakhshan. Nuristan. Nomi che a molti di noi non dicono nulla. Selvatiche regioni dell’Afghanistan orientale, verso il Pakistan. Dieci volontari di una Ong umanitaria protestante, otto dei quali occidentali, operatori sanitari, ammazzati a sangue freddo. «Abbiamo giustiziato dei missionari cristiani», hanno rivendicato i taleban.Hanno detto che avevano nei bagagli delle Bibbie. Ma molti di quei morti erano oculisti, reduci da una missione nei villaggi della regione. Gente che da anni curava la popolazione afghana. «Abbiamo ucciso dei missionari cristiani». L’unico che si è salvato, è un afghano che all’ultimo istante ha preso a recitare un versetto del Corano. E nella morte quotidiana in quel Paese, che quasi non ci tocca più se è di soldati, o di gente del luogo, tanto è frequente, questa morte ha un peso particolare. Medici abbastanza coraggiosi da lasciare gli studi di Boston o di Monaco per andare a preoccuparsi dei più disgraziati del Badakhshan. O del Nuristan. Mentre a casa gli amici faticavano a capire perfino dove fosse, quel posto. Al governatorato di quelle regioni la missione era nota. Tornavano dall’avere curato infezioni, e operato. Magari dall’aver ridato un po’ di vista a dei vecchi e dei bambini. Ma erano cristiani. Li hanno giustiziati come nemici.Particolari questa strage e questa morte, pure nella tragica abitudine di Kabul. Richiamano l’Iraq di alcuni anni fa, degli attentati all’Onu e alle sedi della Croce Rossa, e degli acquedotti sabotati. Ciò che fece dire a André Glucksmann che quel fondamentalismo era l’ultima forma storica del nichilismo. Che una strategia di terrore tendente a cacciare le organizzazioni umanitarie e a bloccare ogni residuo di vita civile mostrava, dietro alle parole, di ambire non alla vittoria della propria parte, ma all’annientamento del suo stesso popolo. Un’ansia di nulla che sembra contagiare la regione afghana. Medici in missione tra la popolazione civile? Ecco cosa ne facciamo del vostro soccorso, e della vostra medicina. «Abbiamo giustiziato nove missionari cristiani». (Non vogliamo, da voi, niente, nemmeno che salviate la vista ai nostri figli. Meglio ciechi, o morti, che curati da voi).Nella ferocia di una guerra, una pagina ancora nuova. Dei medici di organizzazioni umanitarie erano già morti in Afghanistan, ma non giustiziati. La strage di ieri ricorda quella, sei anni fa, dei lavoratori cinesi impegnati nella costruzione di una strada – una delle cose di cui l’Afghanistan ha più disperatamente bisogno. Niente strade, niente medicine, niente ambulatori: è questa la logica di quella che ancora qualcuno chiama “resistenza” talebana. Che gli stranieri se ne vadano, che i cristiani sappiamo che, qui, li ammazziamo. Che la nostra gente resti malata, che le donne rimangano analfabete, che nessun commercio sia possibile su queste strade inesistenti – appena tracce in un deserto in cui nessuno si deve addentrare.È la voglia del nulla. Di un’avversione totale all’uomo, e al proprio stesso popolo. È una logica che nella storia, appena ieri, ha contagiato i totalitarismi come un’ubriacatura; come un gusto di annientamento, più forte perfino di quello del potere. Nei quaderni in cui Dostoevskij annotò i caratteri dei personaggi dei Demoni, quasi il manifesto del nichilismo ottocentesco, lo scrittore scriveva la principale idea del personaggio di Necaev: «Non lasciare pietra su pietra, e che questa sia la cosa più essenziale e necessaria di tutte». I taleban non leggono Dostoevskij. Ma non ne hanno bisogno. È come se certi demoni abitassero nel fondo degli uomini, e talvolta risalissero dal profondo del buio. Uccidere i medici, sparare nelle scuole delle bambine, massacrare i manovali che costruiscono le strade: «Non lasciare pietra su pietra». Non è questo il fronte che scorre tra le montagne dell’Afghanistan? (Badakhshan. Nuristan. Nomi che non sapremmo trovare su un atlante. Così lontani, che crediamo non c’entrino con noi).
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