sabato 13 aprile 2013
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Non sono pochi gli inviti a legiferare su questioni rilevanti rivolti dalla Corte Costituzionale al Parlamento e non tutti sono stati accolti (anzi, a ben vedere e a ben ricordare, piuttosto pochi). Un articolato (seppur incompleto) pro-memoria è stato formulato proprio ieri dal presidente Gallo, che ha tra l’altro ricordato come nella sentenza con cui la Corte negò che fosse costituzionalmente discriminatoria la legge che concede solo alle coppie uomo­donna il diritto di sposarsi, fosse contenuta un’esplicita esortazione al legislatore a provvedere «nei modi più opportuni» a garantire i diritti delle coppie dello stesso sesso.
Per una volta c’è da augurarsi che un appello resti senza la risposta matrimoniale (o para-matrimioniale) che qualcuno s’è subito precipitato a evocare. Una cosa infatti il presidente Gallo non ha detto, né poteva dire in assenza di ogni possibile fondamento testuale, e cioè che la nostra Carta fondamentale dia un qualche espresso rilievo alle coppie gay. L’articolo della Costituzione al quale alcuni giuristi spesso fanno riferimento, l’art. 2, parla genericamente di tutela di formazioni sociali nelle quali si svolga la personalità dell’uomo e tra queste è ben possibile far rientrare le convivenze.
La Costituzione, però, si guarda bene dal far riferimento esplicito alle convivenze sessuate. Esistono infatti molteplici forme di convivenza espressive di bisogni umani autentici, a volte accompagnate anche da rilevanti interessi economici: in questo novero possono farsi rientrare le convivenze tra fratelli, tra genitori e figli, quelle comunitarie (ad esempio a ispirazione religiosa), quelle attivate da e tra studenti universitari negli anni (non brevi) necessari a conseguire una laurea, quelle tra lavoratori immigrati, eventualmente in attesa di un ricongiungimento familiare... tutte queste forme di convivenza hanno una loro legittimità proprio perché si basano su istanze sociali e non sulla pretesa di possedere una valenza para-coniugale. Ma è proprio questa pretesa che si nasconde (in modo peraltro abbastanza esplicito) dietro le richieste di un riconoscimento giuridico specifico a favore delle coppie gay. Di qui una conseguenza.
Se la Corte ha riconosciuto, come saggiamente ha fatto, che l’istituto del matrimonio è strutturalmente eterosessuale, non può, se vuol essere coerente con se stessa, auspicare, né a maggior ragione avallare leggi, che riconoscano ai gay che vogliano istituzionalizzare il loro rapporto tutti i diritti e tutti i doveri dei coniugi, tranne la denominazione formale di 'coniugi'. Il piano non può essere insomma matrimoniale. L’ipocrisia infatti, oltre a essere indegna in sé, non porta lontano. Se il legislatore ritiene che alcune convivenze siano socialmente meritevoli di tutela patrimoniale (in specie per la possibilità che un convivente possa trovarsi senza sua colpa in una situazione di difficoltà economica) intervenga pure, anche con urgenza, ma lo faccia per tutti i conviventi e non solo per quei conviventi che danno rilievo sessuale alla loro unione. Il diritto offre l’opportunità di contrarre matrimonio all’unione eterosessuale perché è potenzialmente procreativa, e per questo interessa lin modo speciale l’ordinamento giuridico.
Qualsiasi altra relazione sessuata (eterosessuale o omosessuale) può essere del tutto lecita giuridicamente, ma non possiede ragioni adeguate per essere ritenuta socialmente rilevante e meritevole quindi di attenzione e della specifica tutela matrimoniale da parte del legislatore. Non dimentichiamoci mai, infatti, che il diritto non esiste per dare soddisfazioni simboliche alle persone, o per in qualche modo attestare la qualità delle relazioni affettive, psicologiche o emotive dei consociati, ma per garantire esigenze sociali.
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