venerdì 18 marzo 2011
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L’orgoglio per quanto abbiamo fatto, lungo un percorso relativamente breve – appena un secolo e mezzo – ma intenso e travagliato, e comunque ampiamente convalidato dai risultati che ha permesso. Accanto e grazie a questa giustificata fierezza, la conseguente fiducia sulle nostre capacità di fronteggiare le nuove «autentiche sfide» che ci attendono, alla svolta appena intrapresa del nuovo millennio.Al culmine di una giornata di festa vera, che né marginali contestazioni né ostentate distrazioni possono offuscare, Giorgio Napolitano ha imperniato su questo doppio registro il suo discorso ufficiale nell’Aula di Montecitorio. Un intervento vibrante nei toni ma in cui la retorica non trova appigli. Una rievocazione storica giocata su un’attenta rivisitazione della vicenda nazionale, che però offre anche, ci sembra, una precisa chiave di lettura contemporanea sul terreno politico-istituzionale. Una lettura, insomma, in grado di orientare, se accolta nelle sue esatte implicazioni e con l’indispensabile «cemento unitario», il confronto in corso, in vista di una migliore e più solida costruzione statuale.La parte più stimolante del discorso presidenziale appare infatti la "saldatura" proposta fra i limiti oggettivi dell’azione portata avanti dai padri della Patria e le opportunità che soprattutto oggi si aprono, proprio per rimediare a quelle carenze che allora inevitabilmente si produssero. Il riferimento di partenza è al dibattito storiografico sulle due soluzioni possibili all’indomani del 17 marzo 1861: e cioè la scelta fra il modello piemontese di stampo accentratore e quello federalista. Napolitano sposa la tesi dello storico Gaetano Salvemini, secondo la quale non c’era alternativa alla prima opzione, vista l’«opera ciclopica» che attendeva i nuovi governanti. Al tempo stesso, il Presidente non nasconde le conseguenze che quella scelta centralista implicava, ponendo tra l’altro le premesse per la tuttora insoluta questione meridionale e, più in generale, per tutte le «debolezze» che hanno travagliato il nostro Paese sul terreno «strutturale, sociale e civile». Ma già la Carta repubblicana del 1948, con l’impianto autonomista accolto nel nuovo ordinamento, che prevedeva un’ampia ridistribuzione dei poteri tra Stato, regioni, province e comuni, ha avviato la necessaria correzione, integrata di recente dalle leggi di revisione costituzionale, nuovo Titolo V in testa. Adesso si tratta appunto di dare attuazione e concretezza a quella che l’uomo del Quirinale definisce «recuperata ispirazione federalista». Siamo in altre parole a un tornante, che può imprimere al moto della storia nazionale l’oscillazione decisiva, in direzione di un disegno equilibrato e rispettoso delle caratteristiche del nostro popolo e del nostro territorio. Davvero peccato che solo pochissimi (ancorché importanti) propugnatori odierni del "verbo federalista" fossero ieri alla Camera ad ascoltare queste parole. Certo, sarebbero stati costretti anche a sentirsi ricordare che l’ «autentico fine» della grande riforma in corso di realizzazione è essenzialmente il rafforzamento dell’unità nazionale. E, insieme a tutti i loro colleghi parlamentari di ogni appartenenza, avrebbero ricevuto di nuovo il pressante invito a utilizzare le celebrazioni di questi giorni per «una profonda riflessione critica», per un fecondo «esame di coscienza collettivo». Nella visione di Napolitano, questa sforzo comune è doveroso, in vista di «una rinnovata e realistica visione dell’interesse nazionale», che già in passato ci ha consentito di superare prove di straordinaria difficoltà. Tra queste, il presidente cita significativamente il superamento del conflitto fra Stato e Chiesa, grazie a una paziente opera di moderazione e di mediazione, culminata nel recepimento dei Patti lateranensi in Costituzione e poi nella revisione del Concordato dell’84. Oggi il rapporto della nuova Italia con i cattolici, che 150 anni fa molti giudicavano irrimediabilmente compromesso, rappresenta «uno dei punti di forza» per consolidare «coesione e unità nazionale». Tutto, dunque, è ancora possibile. Un futuro migliore per l’Italia si può costruire e Napolitano «confida che accada». Una speranza assolutamente da condividere.
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