mercoledì 18 giugno 2014
Capitali del Golfo a caccia di passeggeri. L'Europa si divide. Lufthansa pronta a dare battaglia. (Pietro Saccò)
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Ecco un consiglio che non troverete in nessun manuale di scienze della gestione aziendale: prendete tutti i profitti che la vostra società è riuscita a generare da quando è stata fondata, moltiplicate la somma per dieci attingendo ai soldi dei vostri azionisti, quindi investite il tutto su un’altra azienda, un gruppo che perde denaro da più di un decennio; ma comprate solo una quota di minoranza, in modo che non siate voi a comandare. Se Etihad fosse un’azienda normale, il presidente e amministratore delegato James Hogan rischierebbe di essere criticato severamente per avere formulato una strategia del genere. Ma la compagnia aerea fondata dieci anni fa degli emiri di Abu Dhabi non è una società tradizionale. Etihad – come Emirates e Qatar Airlines, le altre compagnie basate negli Emirati Arabi che nel giro di un decennio sono diventate le grandi potenze del mercato dei cieli – è un’azienda di proprietà di un monarca assoluto. Una società che può costruire una strategia vincente e investire cifre enormi senza l’affanno di produrre profitti e con la garanzia che, quando serve, il padrone paga sempre. l manager inglese Hogan si ostina a negarlo, ma sa di essere poco credibile quando liquida come 'un prestito' i 3 miliardi di dollari che, come ha rivelato uno scoop dall’Australian Financial Review, la famiglia reale di Abu Dhabi ha 'prestato' a Etihad a interessi zero e fino al 2027 o quando sostiene di non dipendere direttamente da quegli emiri che però occupano l’intero consiglio di amministrazione. Il vettore arabo è piuttosto uno dei modi con cui la famiglia degli sceicchi Al Nahyan, che regnano sull’Emirato da più di due secoli, spende i suoi soldi. Un po’ come la squadra del Manchester City. Questo per la fortuna di Alitalia e per la sfortuna delle grandi compagnie europee. L'operazione Etihad-Alitalia, che sembra ormai pronta a decollare, rappresenza la conquista più importante nell’avanzata delle compagnie aeree del Golfo in Europa. Un’avanzata aggressiva che sarebbe anche irresistibile, se fosse solo una questione di soldi. Quando alla fiera aeronautica di Dubai lo scorso autunno le compagnie del Golfo hanno gareggiato a chi faceva più ordini comprando aerei per un totale di oltre 100 miliardi di dollari, Lufthansa, Delta, Air France e gli altri grandi vettori europei e americani hanno potuto solo constatare che con rivali così ricchi e spendaccioni non c’è partita. Ma non è solo una questione di soldi, perché le compagnie europee hanno però qualcosa che manca a quelle arabe: concittadini da imbarcare, una 'merce' che in teoria oggi non si può comprare. Il settore dell’aviazione civile è molto regolato a livello nazionale e internazionale. Le norme europee stabiliscono che per operare voli all’interno dell’Unione europea bisogna essere compagnie europee, cioè occorre che gli Stati o cittadini europei «detengano oltre il 50 % dell’impresa e la controllino di fatto, direttamente o indirettamente» (in America il limite è più stringente, al 25%). Per creare un aeroporto 'hub' in cui fare convergere i passeggeri da tutt’Europa, quindi, bisogna essere una compagnia europea. Per spedire quei passeggeri fuori dall’Unione europea occorre che il proprio paese e quello di destinazione abbiano fatto un accordo in cui si prevede un certo numero di voli di collegamento. L’autorità per l’aviazione civile di ogni nazione 'designa' le compagnie che possono operare questi voli. Non succede quasi mai che vengano designate compagnie slegate sia dal paese di partenza che da quello di destinazione. Il controverso caso di Emirates che ha ottenuto dall’Enac il via libera per volare da Malpensa a New York (altro passaggio chiave nell’avanzata degli arabi in Europa) è unico nel suo genere. Questi limiti creano una situazione in cui i passeggeri 'spettano' alle compagnie del loro paese di origine o di quello di destinazione. Significa che il mercato naturale dei vettori europei può contare su 506 milioni di cittadini comunitari e sui milioni di turisti che arrivano nel Vecchio continente. Le compagnie del Golfo dovrebbero invece fare affidamento sugli 1,1 milioni di cittadini emiratini, sui turisti che vogliono dare un’occhiata a Doha o Dubai, su quelli che volano tra l’Europa e l’Australia, l’Africa Subsahariana o l’estremo Oriente e che quindi possono trovare conveniente fare scalo negli Emirati. È naturale che alle compagnie del Golfo questi passeggeri non possono bastare. La conquista dei clienti europei è il senso della loro avanzata in Europa. Emirates usa la tattica dello 'sfondamento', come nel caso Malpensa-New York, Etihad quella della conquista. Compra quote di minoranza in compagnie europee a cifre irragionevoli (almeno secondo le tradizionali regole del mercato), le riempie di soldi e le gestisce sfruttando il loro status di vettori comunitari. Lo ha fatto con Air Berlin e ora vuole farlo con Alitalia. Non è chiaro quale sia lo scopo finale degli emiri: potrebbe essere lo sviluppo del turismo nel Golfo, oppure l’egemonia nel mercato aereo globale o anche la conquista di un posizione di forza politica sui governi europei. È invece molto chiaro qual è l’effetto di questa concorrenza anomala sui conti dei grandi vettori europei: una pressione al ribasso sui prezzi dei voli intercontinentali che li porta in alcuni casi a livelli insostenibili anche per quei vettori che consideravamo efficienti. 

I passeggeri possono gioire per i risparmi sui biglietti, ma i loro governi devono decidere se il rischio di ritrovarsi senza grandi compagnie aeree davvero europee sia un prezzo accettabile. È un dilemma. Si può rispondere con il liberismo anglosassone e dire, come ha fatto Willie Walsh, ceo di British Airways e Iberia, che gli aiuti di Stato non vanno bene ma la circolazione dei capitali deve essere libera. Oppure si può adottare il pragmatismo alla francese: Alexandre de Juniac di Air France ha già fatto capire che la sua compagnia spera di riuscire a trarre qualche vantaggio dall’arrivo degli arabi in Italia. Altrimenti c’è la linea del rigore tedesco: ci si può opporre, come ha promesso di fare Lufthansa. Il vettore tedesco – che con i suoi 63 milioni di passeggeri trasportati nel 2013 è la seconda maggiore compagnia aerea d’Europa, dietro alla low cost Ryanair – non si oppone alle nozze italo-arabe per puntiglio. Il fatto è che la concorrenza delle compagnie del Golfo, che le sono entrate letteralmente 'in casa' con Air Berlin, la sta sfiancando. L’azienda sta portando avanti un piano industriale fatto di risparmi pesanti - anche sui dipendenti (i piloti si sono ribellati con scioperi durissimi) - e di semplificazione dell’attività. Non sembra bastare: a inizio maggio Lufthansa aveva previsto di chiudere l’anno con utili tra gli 1,3 e gli 1,5 miliardi; non è passato nemmeno un mese e ha dovuto lanciare un allerta agli investitori per comunicare che l’obiettivo era stato tagliato a un miliardo. Colpa degli scioperi, di svalutazioni di crediti venezuelani, ma soprattutto dalla concorrenza delle compagnie arabe, che hanno costretto il vettore tedesco a ridimensionare la sua offerta sulle rotte più ricche, quelle tra l’Europa e gli Stati Uniti. Appena l’operazione Etihad-Alitalia sarà formalizzata, i tedeschi chiederanno all’Europa di fermarla. In attesa del rinnovo della Commissione europea dopo il voto di maggio, il responsabile dei trasporti è il finlandese Kim Kallas, che in questo giorni tra l’altro era in visita in Italia. Interpellato sulla questione, non ha voluto commentare nel dettaglio ed è stato salomonico: «È chiaro che le compagnie aeree europee hanno bisogno di capitali ma abbiamo delle regole molto rigide, quindi se vengono investitori da fuori Europa possiamo considerarlo positivo o meno ma vogliamo reciprocità: in primo luogo abbiamo regole sulla proprietà e il controllo e in secondo luogo sugli aiuti di Stato». Sulla questione del controllo, ha aggiunto il commissario, «le compagnie europee devono avere almeno il 51% delle azioni e il controllo effettivo». Questo «controllo effettivo», specificano le norme europee, può consistere anche in una «influenza determinante sulla gestione delle attività dell’impresa». La definizione è controversa, roba da avvocati. È su quest’ultimo punto che presumibilmente si baserà il ricorso dei tedeschi. Il fatto che, come la stampa ha ampiamente raccontato in queste settimane, il piano della nuova Alitalia sia stato scritto direttamente da Etihad, ad occhio, non aiuterà la nostra ex compagnia di bandiera. 

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