sabato 12 novembre 2011
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Gentile direttore,
dagli eventi degli ultimi 15 anni mi sembra di capire che le riforme strutturali richiesteci da organi da noi non eletti e non democraticamente rappresentativi, specialmente dopo l’ingresso in europa (per me è d’obbligo la minuscola) sono: 1) mercato del lavoro: modifica della contrattazione collettiva in favore di accordi a livello dell’impresa; 2) pensioni: innalzare l’età pensionabile e parificarla per uomini e donne; 3) pubblica amministrazione: adeguare salari e produttività, e promuovere la mobilità; 4) ordini professionali: liberalizzare; 5) beni dello Stato: privatizzare. Voglio dire che a noi non è chiesto semplicemente di risanare la situazione disastrosa della nostra economia, ma si procede oltre: ci è chiesto di eseguire – volenti o nolenti – una riforma strutturale dell’ordinamento e dell’organizzazione statale secondo una ricetta ideologicamente precostituita. Questo si sta cercando di imporci, visto che il "rosario" è da anni sempre lo stesso. Ora, un governo tecnico con il tecnico Monti è adattissimo a questo compito, visto che i nostri politici non vogliono assumersi alcuna responsabilità, né in bene né in male, né pro né contro, confermando in questo modo, come l’8 settembre insegna, l’ignavia e l’incapacità di tutta la nostra classe politica passata e presente. E la domanda ormai è, ma chi comanda in Italia?
Sandro Arena, Milano
 
Caro direttore,
l’apprezzamento di alcuni Paesi europei per "l’ipotesi Monti" come capo del governo, in quanto considerato capace di mettere a posto i conti, mi preoccupa. Mi pare che consenta loro di "riadagiarsi" sugli equilibri economico-finanziari invece di essere forzati a riprogettare un’Europa con una più ampia dimensione politica e democratica.
 
Camillo Ronchetti
 
Caro direttore,
la crisi finanziaria incalza e i Paesi dell’eurozona, Italia compresa, stanno seriamente soffrendo. Molte volte Avvenire ha evidenziato l’impoverimento del ceto medio e lo scivolamento verso il basso di quelli meno abbienti. Le cifre degli aiuti di Caritas italiana sono lampanti e documentati. Proprio di ieri è la notizia che l’ultimo trimestre vede rallentare la crescita e aumentare, ovviamente, di mezzo punto la disoccupazione. La politica italiana è inerme e non ha saputo, in tempi recenti, dimostrarsi all’altezza della situazione, certamente di emergenza. Il governo tecnico di Monti pare alle porte. In Grecia, contemporaneamente, sale al premierato il vice governatore della Bce. Il Fmi e la Bce indicano molto concretamente cosa deve fare l’Italia. La "Caritas in veritate" e le analisi che Avvenire sviluppa, penso in particolare a quelle di Luigino Bruni, mettono in evidenza che il liberismo e il capitalismo sono «in fiamme». Mi sembra che i Governi siano di fatto commissariati dalle istituzioni finanziarie internazionali e comunitarie che scrivono l’agenda di ciò che bisogna fare. Si parla di riforme strutturali e di pensioni. Mi chiedo se vi siano argomenti più politici di questi. Credo che queste istituzioni finanziarie mettano alla corda la democrazia perché "impongono" scelte dolorose senza essere legittimate politicamente. È un problema di non facile soluzione, anche perché le scelte dolorose sono intanto diventate necessarie avendo tra le cause una politica assente o eccessivamente litigiosa, e gli studi a supporto dei "consigli" europei sono seri, ma creeranno conflitto sociale. Non le sembra un po’ sottovalutato questo tema nel discorso pubblico? Quale la sua opinione sul punto? La ringrazio della risposta.
 
Ciro Amato, Pergine Valdarno (Ar)
 
La mia opinione su una politica nazionale che ha prodotto quel «bipolarismo furioso», forse arrivato a consunzione, è abbastanza nota ai lettori di Avvenire, visto che ne scrivo su queste pagine dal 1994. È opinione amara, a tratti amarissima, ma niente affatto liquidatoria. Non è insomma, per dirla con Lorenzo Ornaghi, un’opinione «contropolitica». Anzi, è l’esatto contrario. Nei quasi 18 anni della grande incompiuta che chiamiamo Seconda Repubblica sono state infatti realizzate anche cose utili e buone per l’Italia e per gli italiani, purtroppo però non si è stati capaci di dare vita a una naturale e sana contrapposizione tra visioni e proposte diverse di governo, ma soprattutto non si sono interpretate a dovere le reali esigenze della nostra società, rinviando la riposta a domande fondamentali (a cominciare dai nodi della precarizzazione della famiglia e del declino demografico), e non s’è neppure saputa realizzare, anche quando questo era diventato possibile, una fruttuosa convergenza “ri-costituente” che restituisse equilibrio alle nostre istituzioni rappresentative e ai rapporti tra i poteri dello Stato (ponendo fine al permanente braccio di ferro politico-giudiziario). Ora, però, non ci sono più alibi.
La fase grave e difficilissima nella quale siamo entrati, può e deve essere utile per rimettere in carreggiata il sistema Paese, assumendo la centralità del problema del lavoro e dell’impresa, la fondamentale urgenza della rifondazione del nostro sistema fiscale in senso amico della famiglia, la necessità di rimodulare in modo sostenibile (e sussidiario) il nostro welfare e di assumere la questione giovanile (sia nei risvolti scolastici ed educativi sia in quelli di tipo occupazionale) non come un assillo negativo ma come l’investimento giusto e inevitabile sul futuro comune. Non serve solo “tecnica”, ma anche moltissima buona “politica” per essere all’altezza del compito. Perché è verissimo, come suggerisce un amico lettore, che tutte le questioni elencate sono eminentemente politiche e perché c’è un altro grande capitolo da aprire e chiudere con successo: quello della seria ristrutturazione del nostro bipolarismo (nonché della stessa attività politica e dei suoi costi) e del varo di una legge elettorale che faccia sempre scegliere agli elettori schieramenti e programmi, ma restituisca ai cittadini il potere di scegliere davvero gli eletti. E questo riusciranno a farlo solo un Parlamento e un Governo che camminino insieme per un tempo dato, decisi anche a ricucire lo strappo che s’è creato (e che, in modo miope e malizioso, s’è fatto allargare) tra la gente e il Palazzo. Se non dovesse essere così, temo che, nonostante le energie in campo, non potrebbe esserci soluzione forte alla crisi che s’è virtualmente aperta con le dimissioni che il presidente del Consiglio in carica, Silvio Berlusconi, ha annunciato al capo dello Stato. Tutt’al più un operoso (e faticoso) traghettamento alle urne.
Non è l’ideale avviare una simile impresa sotto il cielo cupo di una crisi drammatica che per lunghissimi mesi abbiamo finto non fosse anche il nostro cielo e bersagliati dai tuoni, dai fulmini e dalle saette che ci piovono addosso da amici europei giustamente preoccupati, ma purtroppo più loquaci (sino all’intemperanza) che fattivi (sino all’inerzia) nel contrastare l’assalto all’euro scatenato lungo la frontiera mediterranea dell’Unione. E, per quello che vale il mio parere, non sarebbe neanche possibile condurla con successo e con vasto consenso nel Paese senza la solida base di una ribadita volontà delle nostre Istituzioni e di tutte le grandi forze politiche – qualunque scelta e qualunque disponibilità esse manifestino nelle prossime ore rispetto all’ipotesi di un nuovo governo – di difendere un principio fondamentale: è inimmaginabile che una grande e ricca democrazia come quella italiana possa essere “commissariata” da qualcuno o qualcosa. Né dall’esterno né dall’interno. 
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