mercoledì 28 settembre 2011
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Gentile direttore,
Silvio Berlusconi, votato in tre circostanze dalla maggioranza degli italiani, è stato per molti una speranza di stabilità politica e dinamismo economico. Per un quindicennio, tanti hanno confidato nel suo ottimismo e senso pratico, nelle capacità organizzative di capitano d’industria. Tutto questo oggi sta finendo per una micidiale combinazione di problemi economici, scandali, comportamenti indecorosi (ben nove processi pendono su di lui). Ma colui che, per molti, rappresentava una speranza di operosità e concretezza, contro la verbosità litigiosa e inconcludente della politica italiana in genere, ora è diventato il principale ostacolo della nostra vita democratica. «Siamo stufi di essere lo zimbello internazionale quando andiamo all’estero a esportare i nostri prodotti», ha affermato Emma Marcegaglia. E in tanti pensiamo che «l’Italia è meglio di così». Del resto, nessun leader occidentale sarebbe sopravvissuto a un decimo delle accuse che sono state rivolte al nostro premier. Per questo c’è chi propone al premier «dimissioni programmate», cioè annunciate ora e rese effettive, con conseguente ritorno alle urne, nella prossima primavera. Questa mossa produrrebbe una serie di vantaggi: "salverebbe" il suo partito; darebbe a esso e alle opposizioni l’opportunità di prepararsi alle prossime votazioni; eviterebbe derive anticostituzionali e mostrerebbe al mondo che noi italiani sappiamo gestire la nostra democrazia. Permetterebbe, infine, a Berlusconi di affermare, non senza qualche ragione, che il merito di questa transizione è anche suo.
Luciano Verdone, Teramo
Allo stato delle cose, caro professor Verdone, la sua proposta al premier è per un verso un ragionato desiderio e per l’altro quella che si potrebbe definire la classica ipotesi di scuola. Opinionisti illustri la condividono, eppure resta solo tale: ipotesi e desiderio. In Italia, infatti, le transizioni politiche non attribuiscono meriti, ma assegnano solo demeriti (persino accompagnati da "fogli di via") e propongono eredità destinate solo a chi è lesto ad approfittare del vuoto che si va creando. Lo sa decisamente bene Silvio Berlusconi, figura-perno della cosiddetta Seconda Repubblica, avendo saputo trarre il massimo vantaggio dalla transizione che si era avviata nel triennio 1992-94 e che – ahinoi – si sta esaurendo senza essersi davvero conclusa. Lo sa così bene da aver già chiarito di non voler fare la fine del suo antico amico Bettino Craxi, morto esule in terra straniera. Questo per dirle che non vedo all’orizzonte gesti eroici, ovvero spontanee dimissioni e spinte dall’alto ai processi rifondativi della partecipazione politica che si vanno auto-innescando dal basso. Constato insomma che il deterioramento progressivo del quadro politico prosegue e con esso quello del rapporto tra noi rappresentati e chi ci rappresenta e ci governa. Un processo che è sotto gli occhi di tutti e che il presidente della Cei ha di nuovo rimarcato l’altro ieri con grande preoccupazione e nessuna rassegnazione. Lo stesso atteggiamento con il quale lo segnalo da tempo anche io, ostinandomi a sperare in un colpo d’ala da parte di chi nella maggioranza e nelle due opposizioni ha più responsabilità, più doveri e più sensibilità per ciò che accade nel Paese reale. Detto questo so che anche in Italia s’è instaurata un’altra tradizione: nelle urne (elettorali) si finisce per cascarci dentro, e chi si fa più male è regolarmente colui che ha governato fino al giorno prima. Ho la sensazione che anche questo contribuirà a far sì che la prossima tornata elettorale – quando sarà – proponga un’offerta politica sensibilmente rinnovata. Questo lavorìo, ovviamente, richiede tempo. Ripeto: è solo una sensazione, caro professore, ma è chiaro che si è ormai aperta una grande partita sul destino dello strano (e fin qui furioso) bipolarismo all’italiana. Uno scontro tra chi vuole far nascere, appunto, un bipolarismo tutto nuovo, chi punta semplicemente a farne a meno e chi, infine, vuole assolutamente salvare il vecchio assetto. Chi, come noi, pensa prima di tutto ai problemi dell’Italia e dei suoi cittadini e non dimentica che il «vino nuovo non va posto in otri vecchi» chiede che questa ormai inevitabile "grande partita" non si riduca a pura scelta di schieramento e a puro spettacolo, ma si svolga per motivi seri, attorno a questioni serie. Come quelle sollevate, con lucida attenzione di vescovo e dunque senza tecnicismi e slogan da politico, dal cardinale Bagnasco nella sua prolusione di lunedì ai lavori del Consiglio permanente della Cei. Quei nodi che questo giornale, nel suo compito di cronaca e di offerta di opinioni, continua a sua volta a indicare e a indagare: la questione giovanile e il suicidio demografico, l’iniquità e l’evasione fiscale, la rivitalizzazione (anche sussidiaria) del welfare, la centralità della questione educativa e scolastica… Nodi da sciogliere o, meglio, da valorizzare come stanno facendo tante realtà del mondo cattolico in dialogo anche con chi cattolico non è o non si sente del tutto. Nodi, dunque, utili a "fare rete". Quella rete che serve al Paese e che può contribuire a salvarlo, orientandone il cammino verso il futuro.
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