giovedì 16 gennaio 2014
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L’immigrazione, oggi più che mai, è argomento esplosivo, fonte di polemiche al calor bianco e di divisioni che non attraversano solo il fronte politico, ma l’intero corpo della società civile. Se andiamo al fondo della questione, e al di là delle (inevitabili?) strumentalizzazioni partitiche in salsa elettorale, ci accorgiamo che c’è da misurarsi con due grandi interrogativi: chi è l’altro? Come posso rapportarmi con lui? Per non annoiare il lettore con disquisizioni filosofiche, conviene mostrare come queste domande possano essere declinate nelle problematiche migratorie.In Italia vivono circa 5 milioni di stranieri, per la stragrande maggioranza spinti a uscire dal loro Paese dal bisogno economico e attirati qui dalla possibilità di occupare spazi del "mercato del lavoro" lasciati liberi dai nostri connazionali. L’Italia è necessaria a loro, loro sono necessari all’Italia, come è facile constatare dando uno sguardo agli operai stranieri che pullulano nelle fabbriche, a cuochi e camerieri nei ristoranti, agli infermieri negli ospedali, alle badanti e alle colf nelle case. Non possono peraltro essere considerati semplicemente come forza lavoro, portano le domande che abitano ogni esistenza: chiedono per sé e per i propri familiari casa, salute, istruzione, sicurezza. In una parola (un po’ abusata, ma ancora evocativa della complessità della posta in gioco) chiedono integrazione. Un obiettivo che molti hanno già raggiunto – anche se le storie di successo fanno molto meno notizia del sensazionalismo negativo con cui i media continuano a raccontare l’immigrazione – e che altri ancora faticosamente inseguono. Un obiettivo che le istituzioni possono aiutare a perseguire coniugando un’accoglienza lungimirante e che tenga conto della crisi che continua a mordere, un deciso contrasto all’illegalità, la tutela dello stato di diritto e dei princìpi che fondano la nostra tradizione giuridica ma non sono per nulla scontati in altri contesti culturali e religiosi.Due nodi sono in particolare all’ordine del giorno: l’abolizione del "reato di clandestinità" e la modifica delle norme sulla cittadinanza. Sul primo appare necessaria una svolta che venga armonizzata con la revisione dell’attuale sistema di ingressi, rivelatosi troppo rigido, farraginoso, inadeguato a favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, che non può realizzarsi soltanto all’estero, ma esige molto spesso che lavoratore e imprenditore possano guardarsi in faccia. Il dibattito sulla cittadinanza è stato finora artificiosamente polarizzato tra ius sanguinis e ius soli, mettendo in angolo una considerazione elementare: non si tratta di regalare la nazionalità a chiunque nasca in Italia (magari casualmente o artificiosamente, proprio per approfittare degli automatismi dello ius soli, ma di riconoscerla a chi è già parte integrante della comunità italiana, perché nato da genitori che da tempo vivono qui e perché ha già intrapreso un percorso formativo nelle nostre scuole. È questo il senso della proposta dello ius culturae, che appare la soluzione più equa e realistica anche se lasciata, in questa fase, in ombra da una politica più interessata alla polarizzazione ideologica e alla demolizione dell’avversario che ad affrontare in maniera realistica e lungimirante gli interrogativi legati all’idea di "nuova cittadinanza".Che cosa significa, oggi, essere italiani? È possibile costruire una identità arricchita e aperta, capace di tutelare e promuovere il patrimonio di valori e idealità che abbiamo ereditato dai nostri padri e insieme di aprirsi alla nuova linfa vitale che tanti immigrati portano con sé? Papa Francesco continua a indicare la "cultura dell’incontro" come via privilegiata per superare le secche di una globalizzazione senz’anima e dell’indifferenza globalizzata. È la posizione umana più adeguata per capire che "l’altro" ci è necessario se vogliamo vivere pienamente la nostra identità. Non è la proposta di una formula magica, non ha la pretesa di dire "cosa fare" ma anzitutto "come stare" di fronte all’altro che arriva e in diversi modi (ne siamo consapevoli o meno) abbiamo chiamato tra noi. È l’indicazione di un metodo per imparare a vivere insieme. Sapranno farne tesoro anche i nostri politici?
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