martedì 25 marzo 2014
​Il voto francese, Le Pen e l’euroscetticismo
di Giorgio Ferrari
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Tutto era già scritto, tutto era previsto e soprattutto prevedibile: il fortissimo astensionismo alle elezioni amministrative, la 'grande marea blu', il trionfo – se pure su scala ridotta – del Front National di Marine Le Pen, la sconfitta devastante dei socialisti e in primis di François Hollande, il modesto successo dei moderati dell’Ump di Sarkozy, l’appello che ora l’estrema destra francese lancia a tutti gli euroscettici perché si formi un cartello «in difesa degli Stati nazione, del ritorno della democrazia, della sovranità dei popoli e delle identità nazionali». Tutto era prevedibile e la storia recente di Francia lo insegna: nel 2002 il Front National di Jean-Marie Le Pen (il padre di Marine) andò al ballottaggio con il Rassemblement guidato da Jacques Chirac, eliminando al primo turno la sinistra del mite ugonotto Lionel Jospin, che pure aveva ben governato e raggiunto traguardi importanti sul fronte delle politiche del lavoro. Ma quel buon governo socialista non bastò: il francese medio aveva paura, temeva i casseurs delle banlieues , mal sopportava la pressione del Maghreb nelle periferie, si sentiva insicuro e trascurato. Ma non fu Chirac a rassicurarlo, bensì Le Pen. Perfino gli operai tradizionalmente trozkisti del porto di Calais e della Gironda finirono per votare il Front National, e solo il voto della gauche convogliato al secondo turno su Chirac consentì al presidente in carica la rielezione. Tre anni dopo ci fu un’altra eloquente avvisaglia. Con grande clamore Parigi bocciò nel 2005 con il 54,7% il referendum sulla Costituzione europea, una carta messa a punto dall’ex presidente Valery Giscard D’Estaing. Questa volta la paura dei francesi riguardava l’euro, l’economia, l’invasione dei plombiers polacchi, gli idraulici che si vendevano a un quinto delle tariffe francesi distruggendo il mercato. Analogo responso lo diedero le urne in Olanda, il Paese di Geert Wilders, alleato di ferro di Marine Le Pen e in corsa per le elezioni europee di maggio con il proposito di costituire una nuovo grande gruppo di euroscettici. Come s’intuisce, la classe politica francese – ma diciamo tutto, l’Europa intera – aveva a disposizione tutti gli strumenti per immaginare e magari anche per arginare quella marea montante che rischia di fare della imminente consultazione elettorale europea un’autentica débâcle per le grandi famiglie politiche del Parlamento di Strasburgo, il Ppe e il Pse. La domanda è dunque d’obbligo, pur tenendo conto che nelle elezioni amministrative francesi si tende sempre a punire il governo votando in libertà: che cosa non ha saputo capire Hollande, quali voci non sono state colte dal governo socialista, la cui popolarità peraltro è da mesi ai minimi storici? Le ragioni sono molteplici, e la crisi economica certamente ne raduna una buona parte, ma a concorrere allo smarrimento del cittadino francese, tanto da mandare al ballottaggio i candidati della Le Pen in oltre metà dei Comuni nei quali si sono presentati, ci sono sicuramente ragioni più profonde e forse più segrete della disaffezione nei confronti dell’Europa à la carte (quella della grande inaccessibile e inscalfibile burocrazia) e delle sue tagliole.  Ci viene in mente prima di tutto, considerando l’eco, la forza delle polemiche che ha suscitato e la profonda spaccatura provocata nel Paese, la scelta del governo di legalizzare i matrimoni omosessuali e le adozioni ai gay, promessa che Hollande aveva fatto in campagna elettorale, e che tuttavia ha portato nelle piazze milioni di persone di ogni orientamento e di diverse fedi, unite in una protesta per la 'rottura' forzata e dall’affermazione di un umanesimo positivo che all’Eliseo e al governo qualcuno avrebbe dovuto meglio interpretare. Meglio di Hollande ha fatto invece la Le Pen, che ha abilmente dissimulato i più ruvidi connotati xenofobi e razzisti del Front National per scagliarsi piuttosto contro l’'Europa matrigna' incarnata dai severi custodi del rigore, dai signori dello spread e da una classe dirigente – quella di Bruxelles – altrettanto lontana dai cittadini e dalle loro domande quanto lo sono stati numerosi governi nazionali, tra cui, indubbiamente, quello parigino. Che sia tempo di cambiare, di cambiare anche quella classe dirigente continentale arroccata nel cuore del Belgio non vi è dubbio alcuno. E questo la maggioranza degli elettori lo ha già compreso. Senza bisogno che le sirene populiste glielo ricordassero.
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