lunedì 11 maggio 2015
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Adistanza di un anno, ancora non è del tutto evidente a chi quel 10 maggio lo trascorse sotto il sole di piazza San Pietro se si trattò di un happening, una celebrazione, una festa, un raduno di dimensioni fuori dal comune, una manifestazione, o un semplice pomeriggio insieme al Papa per ascoltarlo su un tema che a tutti era caro oltre ogni possibile apparenza, ovvero la scuola e, prima ancora, l’educazione. Ma forse, un anno dopo, si capisce che fu quella la prima e – a oggi – la più convincente fotografia pubblica della "buona scuola" di cui poi si sarebbe a lungo parlato, per enunciarla o irriderla, contestarne lo stesso concetto o proporlo come obiettivo cui lavorare.E il motivo è dentro le stesse contraddizioni dei pro e dei contro che abbiamo visto srotolarsi nei palazzi e nelle piazze proprio nei giorni che ci hanno appena avvicinati all’anniversario di quell’incontro – eclatante per numeri e provenienze – della scuola italiana col Papa: nella calura romana di un memorabile sabato di primavera, quei 300mila arrivati a Roma aderendo all’invito della Cei per dire le ragioni dell’educare oggi, in qualunque istituto e dovunque si trovi, erano la scuola tutta intera, non suoi spezzoni in polemica con altri, oppure autoproclamate rappresentanze di categorie.A noi che eravamo dentro quella folla apparve un’immagine della scuola così com’è, statale e paritaria, blasonata e metropolitana o caposaldo sperduto di un’Italia periferica, col fiatone e il tetto che perde o in cima alle classifiche Ocse. Ma soprattutto c’erano tutti quelli che alla scuola danno vita, senza esclusioni o esclusive: e dunque, certo, insegnanti e studenti, ma anche papà e mamme, sorelle, fratelli e nonni, professori in jeans accanto a suore velate e sacerdoti e in maniche di camicia, figli accanto a genitori e a compagni d’educazione, perché la «buona scuola» italiana di quella piazza circolava senza targhe, e la famiglia non era un gregario, lo spettatore che osserva inquieto ma irrimediabilmente estromesso le vicende altrui, stava invece dentro, a casa propria, protagonista alla pari dell’opera formativa del Paese che sarà. E come potrebbe essere altrimenti? La famiglia include, apre alla vita, ascolta e insieme alla scuola cresce chi vuole diventare grande. La scuola è casa sua, e quando si entra a casa c’è spazio per i figli e gli amici, gli educatori e chi li assiste, non importa se laici o con l’abito religioso, docenti in cattedra o bidelli. Non c’è concorrenza, discrimine ideologico, privato o pubblico, fuori o dentro, perché la «buona scuola» include tutti e non taglia fuori nessuno per burocrazie o pregiudizi. Un patto che ha per contenuto i valori che saranno la fibra dell’Italia di domani, e per obiettivo mettere generazioni nuove nelle condizioni di affrontare il mare aperto in autonomia, nasce e dà frutto solo dentro una comunità, a prescindere da radice culturale e fede professata.Un anno e molte parole dopo, oggi si capisce meglio cosa ci disse il Papa: «Per educare un figlio ci vuole un villaggio». Una comunità, appunto. La formula della «buona scuola» detta in chiaro.
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