domenica 17 luglio 2016
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Non gioisco. Non ci riesco. Una tristezza profonda si è impossessata di me prima, durante e dopo la lettura della sentenza di primo grado nel processo che ha visti imputati l’avvocato Cipriano Chianese, Gaetano Cerci e altri. Il pubblico ministero Alessandro Milita aveva chiesto per loro la condanna a 30 anni. La corte ne ha inflitti 20 per Chianese, 16 per Cerci. Vent’anni, dunque, per il proprietario della Resit di Giugliano. Per l’inventore delle ecomafie in Campania. C’è tra il pubblico chi si dice soddisfatto e chi avrebbe voluto una condanna più severa. Dopo la lettura scappo. Corro a celebrare la Messa. Ne ho bisogno. Mi riporta con i piedi per terra. Mi fa ridimensionare tutto. Le lunghe ore passate in tribunale mi hanno stancato. Sarà il prete che abita in me. Sarà la pietà alla quale non voglio abdicare in nessun modo e per nessun motivo, ma al di là dei reati e dei peccati, aguzzo lo sguardo per continuare a vedere nel reo, l’uomo. L’uomo amato da Dio che, per una misteriosa, patologica, insana smania di potere e di denaro tradisce se stesso, i suoi fratelli e lo stesso Dio. L’uomo che, nonostante tutto, conserva, anche se rimpiccioliti, malati, distorti, i sentimenti umani. Gaetano Cerci, assente in aula, a un certo punto viene riportato tra le sbarre. Faccio in tempo a notare, prima che la sentenza venga pronunciata, che Cerci guarda verso l’alto, al di là della vetrata, dove il pubblico è assiepato. Un pubblico che gli è ostile. Lui lo sa. Che chiede l’ergastolo per tutti i responsabili che hanno fatto scempio della loro terra. Tra il pubblico c’è anche il figlio di Cerci. Un giovane dai capelli biondi. Dalla gabbia nella quale è rinchiuso, Cerci lo individua, gli sorride, lo saluta. Poi, come un bambino, gli manda un bacio con la mano. Per un attimo dimentico il processo in corso. Quel bacio mi intenerisce, mi commuove. Ma mi fa anche tanta rabbia. Quel gesto, tenero, affettuoso, bello, sta a dire: «Ti voglio bene... sei la mia vita... farò di tutto per vederti felice». Ma, lanciato dalle sbarre di un tribunale, è incoerente, contraddittorio. Gaetano Cerci non è un uomo libero. È, invece, una persona pericolosa dalla quale l’Italia si difende. Lui è un padre già condannato e detenuto, al quale tra poco verranno dati altri sedici anni. Un padre che non ha trasmesso a questo figlio, che pur dice di amare, l’esempio da seguire per essere onesto, libero, felice. Per farne un uomo al servizio del bene e dei fratelli. Contraddizioni pesanti come macigni. Chianese, detenuto ai domiciliari, non è in gabbia, ma seduto al banco degli imputati, tra i suoi avvocati. È elegante e serio. Non tradisce emozioni. Quasi come se il processo e la probabile condanna non lo riguardassero. Le ore di attesa sono lunghe, noiose, snervanti. Le parti si sono combattute aspramente. Gli avvocati sono andati alla ricerca di cavilli per riportare in libertà i loro assistiti. Ogni processo è un campo di battaglia. Purtroppo, non sempre accade che la verità con l’iniziale maiuscola diventi anche verità processuale. Nel campo delle ecomafie, poi, i processi sono veramente complessi, difficili. Non è semplice cogliere in flagrante il sicario con la pistola fumante in mano. Il disastro ambientale non è facile da dimostrare, nonostante la recente legge sugli ecoreati. Mi convinco che, in questo campo che tutti ci riguarda, occorre un sussulto di dignità. Una presa di coscienza collettiva. Occorre che tutti – cittadini, giudici, avvocati, periti, imputati – prendano in seria considerazione l’enciclica di papa Francesco, la Laudato si’. Le pene saranno sempre troppo miti per chi ha avvelenato il Creato e, di conseguenza, ha condannato a morte il popolo innocente, ignaro, fiducioso. Il nesso di causalità tra ambiente avvelenato e salute, infatti, è difficile, se non impossibile da provare scientificamente. E al riparo di questa complessità si mimetizzano ben bene gli ecomafiosi: industriali disonesti, intrallezzatori vari, politici corrotti e camorristi di vecchia data. Ma anche se ci vorranno anni, risorse, ricerche, buona volontà, onestà scientifica e intellettuale per affermarlo con assoluta certezza, tutti sappiamo che l’ambiente avvelenato avvelena l’uomo. Che il Creato è la casa comune di cui avere estrema cura. Che a nessuno è permesso di arricchirsi sulle spalle dei fratelli. In attesa che la comunità scientifica arrivi a pronunciare la parola definitiva, cominciamo a bloccare gli ecomafiosi e a pretendere che venga messo in atto il principio di precauzione. Per amore del nostro popolo. Compresi i figli degli avvelenatori ai quali i loro padri hanno fatto tanto male.
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