martedì 29 settembre 2009
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Noi alla Rai vogliamo bene. Più per quanto è stata e potrebbe essere, che per quello che oggi effettivamente è. E di un servizio pubblico radiotelevisivo di alta qualità gli italiani hanno bisogno; ne ha bisogno la democrazia, il cui stato di salute è direttamente collegato a quello del suo sistema mediatico e, in particolar modo, radiotelevisivo. Per questo lascia perplessi l’appello a non pagare il canone Rai strillato da alcuni quotidiani. Non pagate il canone – è l’invito ai loro lettori – perché è intollerabile «finanziare» trasmissioni come 'Annozero'. Non pagate per indurre la Tv pubblica a far piazza pulita del giacobino Santoro. L’appello, spettacolare (se ne avvantaggerà lo stesso Santoro) e non privo di una carica demagogica oggi di moda, è viziato innanzitutto da un equivoco. Il canone Rai non esiste, né l’abbonamento è un abbonamento, ma una tassa sul possesso dell’apparecchio televisivo o di qualunque altro mezzo atto a ricevere i segnali tv. Si spiega così perché la debba pagare, la tassa, anche chi dovesse tenere il televisore accasciato da anni in cantina, mortalmente spento. Infatti, per non pagare senza farsi fuorilegge, bisognerebbe mettere i sigilli all’apparecchio o rinunciare al computer. Va da sé che poi non potremmo vedere niente di niente, non solo la Rai. In altri termini – e qui l’appello sfiora l’autogol – calerebbero gli ascolti, e quindi gli introiti pubblicitari, anche di Mediaset, la cui proprietà è 'sorella' a quella del principale quotidiano che invita al boicottaggio. Da parte dei detrattori, molto più serio, educativo e democraticamente elevato sarebbe invitare gli italiani a cambiare canale e non guardare il programma incriminato. L’unica vera paura di chi fa tv è il calo degli ascolti. Ma forse, nella vicenda, tutto è sbagliato, strategia e bersaglio. 'Annozero', piaccia o dispiaccia, sono appena tre ore tra centinaia di ore di tv. E tanta, troppa tv è oggi impegnata in un’opera sistematica di obnubilamento delle coscienze, da rendere incapaci di distinguere il buono dal cattivo, il bello dal brutto, il giusto dall’ingiusto, l’utile dall’inutile, l’alta qualità dalla bassa qualità. Il vero pericolo è costituito, da sempre, da chi confeziona programmi sciacquacervello che anestetizzano il palato abituandolo alla mediocrità. Da chi ci ripete che l’intrattenimento non può essere intelligente. Un pubblico di cittadini telespettatori cresciuto a questa scuola è la premessa all’eutanasia del senso critico e – dagli oggi, dagli domani – rischia di diventare un esercito sempre più renitente al coscente esercizio delle libertà democratiche. È su questo fronte che il servizio pubblico televisivo dovrebbe dimostrare un guizzo di orgoglio e di responsabilità. Dovrebbe rinunciare a quella che da anni denunciamo come la 'pornografia dei sentimenti' di troppi programmi spazzatura; all’illogica dittatura dell’auditel usato non come strumento a servizio del mercato pubblicitario, ma per determinare la sorte dei programmi, secondo l’assurda equivalenza 'quantità uguale qualità'; ai compensi milionari di star di dubbio talento a fronte dell’incapacità di reperire fondi per una vera tv dei ragazzi e per i ragazzi, a partire dal loro diritto a un’informazione calibrata (e a misura). Per non parlare delle continue violazioni del codice di autodisciplina, della pubblicità strillata a volume doppio, eccetera. Questa sarebbe la Rai per la quale pagare volentieri una tassa. Questo sarebbe il servizio pubblico degno di una nazione civile.
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