giovedì 4 aprile 2013
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Gentile direttore,
negli ultimi tre anni ho dovuto relazionarmi quotidianamente con il mondo delle carceri italiane e mi sono più volte chiesta come un Paese civile possa accettare una situazione come quella dei nostri istituti penitenziari: come ci si può scandalizzare per l’allevamento delle galline in gabbia (con tanto di servizi nelle trasmissione tv più seguite d’Italia) e tollerare che degli uomini vengano trattati come bestie, in spazi e condizioni talvolta peggiori di quelli degli amici pennuti? La maggior parte di loro presto o tardi uscirà (su circa 65.000 detenuti, la stragrande maggioranza prima o poi tornerà di nuovo tra noi!): come vorremmo che fossero quando saranno di nuovo qui? Questa è una domanda scomoda, che non si può fare mai, perché quando un uomo o una donna vengono arrestati, soprattutto per crimini violenti, quel che desideriamo è soltanto una "buona vendetta", una punizione che li faccia soffrire tanto quanto siamo stati male noi. Magari non si arriva a evocare la pena di morte, ma nei fatti è ciò che vorremmo: vorremmo ripagare un male con un male identico oppure dimenticarci di chi è stato recluso, che sparisse per sempre... Per fortuna invece ciò non accade, perché quei "mostri", quelle "bestie" rimangono fino alla fine uomini e donne, anche se noi smettiamo di considerarli e trattarli come tali; dunque il problema non può essere quello di illudersi che, dopo una tale "giusta punizione", chi ha sbagliato magicamente migliori, ma è indispensabile che si creino tutte le condizioni attraverso le quali sia possibile una rinascita, una nuova vita. Chi di voi, per migliorare la camminata di uno zoppo, gli amputerebbe la gamba sana? Questo è invece il criterio con cui guardiamo e "correggiamo" chi ha sbagliato: piuttosto che rafforzare ciò che di buono c’è, ciò che di buono è rimasto in ciascuno, ci "vendichiamo" al punto da rendere quasi impossibile la ripresa del cammino. Speravo in un nuovo governo che potesse riformare la giustizia, che alleggerisse la situazione nelle carceri (insostenibile anche per chi ci lavora), ma in questi giorni è stato chiesto a dieci saggi di preparare la strada. Spero che a questi saggi, tra crisi economica e politica, resti il tempo per guardare anche dietro le sbarre, perché anche se fingiamo che non esistano, anche se facciamo di tutto per tenerle lontano da noi, le carceri con il loro carico di umanità sono e restano lì, gridando in silenzio.
Giuditta Boscagli
Lei, gentile signora Boscagli, a proposito delle carceri e della disumanità che purtroppo caratterizza diffusamente le attuali condizioni di vita dietro le sbarre rilancia un appello che molte volte è risuonato (ed è stato documentato) sulle colonne di questo giornale. E lo indirizza alle personalità incaricate dal presidente Napolitano di contribuire a rendere possibile ciò che per diversi motivi oggi appare impossibile, cioè una larga intesa nell’interesse dell’Italia e degli italiani rinunciando a calcoli e interessi personali e di fazione. Fa bene, cara amica. Lo stato di una democrazia si valuta anche dalla qualità del suo sistema penitenziario, da come esso assolve il compito di scoraggiare e punire i crimini e di recuperare le persone che li hanno commessi, aiutandole a onorare la nostra comune umanità e ad alzare lo sguardo a ciò che davvero vale. Anche noi non ci stanchiamo di ripeterlo, ispirandoci alla dedizione e alla speranza che, giovedì santo, hanno condotto Papa Francesco tra i ragazzi del carcere minorile romano di Casal del Marmo. E grati a tutti coloro che con la loro opera negli istituti di pena italiani continuano a dimostrare che questo non è soltanto un sogno "buonista", ma una strada davvero buona, che va seguita.
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