domenica 29 aprile 2012
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Anche Mario Draghi ha lanciato l’appello per un «patto per la cre­scita », anche Angela Merkel si sta con­vincendo che si tratta di una necessità. Sta diventando chiaro a tanti – e, me­no male, anche a tanti tra coloro che contano – che basarsi unicamente sul «patto fiscale» non solo è troppo poco, ma rischia di peggiorare ulteriormen­te la situazione economica e sociale dei Paesi europei più fragili. Crescita, dunque; ma crescita di che cosa? Senza abbracciare le tesi radicali, e a volte ingenue (soprattutto nelle tera­pie che propone) della cosiddetta de­crescita, occorre essere coscienti che la domanda più importante sulla cre­scita è proprio il «che cosa?». Quando si pensa alla crescita, normalmente si pensa alla crescita del Pil. E si sbaglia, perché, anche se non lo si dice mai, questa crisi è stata generata pure da u­na crescita sbagliata del Pil. In questi ultimi decenni, infatti, il Pil è cresciu­to troppo e male, poiché è cresciuto – e cresce – a spese dell’ambiente natu­rale, sociale, relazionale, spirituale, a­limentando l’ipertrofia della finanza speculativa. In Italia e nell’Europa in crisi, il Pil è poi cresciuto anche grazie a un abnorme aumento del debito pubblico – è troppo comodo e irre­sponsabile far aumentare il Pil au­mentando la spesa della pubblica am­ministrazione. Oggi non abbiamo alcuna garanzia che rilanciare il Pil significhi anche aumentare i posti di lavoro e il be­nessere delle persone, poiché se la crescita continuasse a essere guidata e drogata dalla speculazione finan­ziaria, e quindi dalle rendite, la vita degli italiani continuerebbe certa­mente a peggiorare anche con qual­che punto in più di Pil. Come lo co­nosciamo oggi, il Pil non è né un in­dicatore di benessere umano in ge­nerale (e questo lo si sa), ma neanche un buon indicatore di benessere eco­nomico nell’era della finanza (e que­sto lo si sa meno). Se vogliamo misu­rare bene la buona crescita, occorre riformare il Pil e soprattutto affian­cargli altri indicatori, che però – e qui sta il punto – siano indicatori di stock e non di flussi (com’è il Pil). In quale senso? Il concetto di «Prodot­to interno lordo» nasce nel Settecento in Francia (con i Fisiocratici), con l’in­tuizione geniale e rivoluzionaria che la forza economica di un Paese non la misurano i capitali o gli stock ma il red­dito annuale (un flusso quindi), poi­ché un Paese non è ricco perché ha mi­niere, petrolio e foreste, ma solo se è capace di mettere questi capitali «a reddito», il che dipende da molti fat­tori (persone, tecnologia, cultura...). E da lì siamo arrivati fino al Novecento e alla nascita del Pil, continuando a pensare che per la ricchezza delle na­zioni contino i flussi e non gli stock. Quella bella antica idea, però, oggi ri­schia di essere fuorviante. Anche volendo lasciare un suo valore a un indicatore di flussi (un nuovo Pil), è più urgente che gli stock e i capitali ritornino a occupare il cuore della sce­na economica sociale e politica. Il te­ma ambientale, ma anche quelli rela­zionale e sociale – drammaticamente centrali – sono forme di stock e non di flussi, capitali accumulati durante mil­lenni (o milioni di anni, nel caso del­l’ambiente), che oggi la corsa per au­mentare i flussi di reddito sta danneg­giando e deteriorando. Se vogliamo e dobbiamo rilanciare la crescita, dobbiamo allora concentrar­ci sulla crescita e sulla manutenzione di queste forme di capitali: se esse non venissero rafforzate, mantenute e in molti casi ricreate, i flussi economici non ripartirebbero; o, se anche ripar­tissero perché drogati dalla finanza o dai fondi europei, continuerebbero ad alimentare le crisi del nostro tempo. Basterebbe soltanto pensare all’impoverimento di quegli antichi capitali civili che si chiamano relazioni di vicinato e di prossimità e di quella "coralità produttiva" dei territori che hanno generato fino a tempi recenti le tante esperienze di cooperazione e i distretti industriali del Made in Italy. Il deterioramento di questi capitali sta determinando una progressiva sterilità del nostro tessuto civile, che non è capace di generare alcun flusso, né culturale, né spirituale, né economico. Per poter ricostruire, e presto, questi indispensabili capitali, occorre prima saperli vedere, e poi magari misurare, dando vita a nuovi misuratori di stock o, meglio, di patrimoni, parola più suggestiva perché, se intesa come patrum-munus, cioè il dono dei padri, ci ricorda simbolicamente che questi patrimoni li abbiamo ricevuti in dono dalle generazioni passate, e quindi li dobbiamo custodire e sviluppare, se non vogliamo essere ricordati come la prima generazione ingrata della storia, quella che ha interrotto la grande catena di solidarietà intertemporale. E questo non possiamo permettercelo anche per rilanciare, oggi, la buona crescita economica.
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