Cambiare parole serve e non basta. I figli Down non si «scartino»
venerdì 13 ottobre 2017

Gentile direttore,
prima il presidente Matteo Renzi, poi Federico Girelli e Gianfranco Antinori l’hanno indotta a un commento che trae origine dalla vicenda della bimba con sindrome di Down rifiutata dai genitori davvero profondo, sul quale occorre ben riflettere per coglierne l’interezza della portata. Non penso quindi di aggiungere nulla, se non associarmi al presidente Renzi quando, tra l’altro, auspica che non si ricorra al rozzo ed incolto termine “mongoloide” che, nel significato che di fatto ha acquisito nel linguaggio comune, offende anzitutto le genti della Mongolia. Linguaggio peraltro caduto negli ultimi due o tre decenni largamente in disuso anche per la efficace azione informativa e formativa delle associazioni di promozione sociale quali, ad esempio, la Associazione Italiana Persone Down che hanno fatto piazza pulita di pregiudizi e convinzioni aberranti (il medico Down nel 1866 descrisse la sindrome ma solo nel 1959 Lejeune riuscì a spiegare come insorge la trisomia 21: quindi la scoperta è piuttosto recente, ma le cause ne sono tuttora sconosciute). Spiace dunque rilevare come a persona – prescindendo ovviamente dalle opinioni di cui ciascuno è portatore – intellettualmente certamente pregevole come il dottor Travaglio sia sfuggito, qualche giorno fa nel corso della trasmissione “Otto e mezzo” su La7, il termine “mongoloide” in senso denigratorio. E spiace ancor di più che la conduttrice Lilli Gruber non abbia battuto ciglio dinanzi a tale “svarione”, di cui lo stesso Travaglio si è poi scusato.

Giorgio Girelli

Tutti sbagliamo, gentile e caro ambasciatore Girelli, e quando un giornalista di gran nome si scusa – come Marco Travaglio ha fatto “in diretta” – è sempre una buona cosa e una preziosa lezione per una categoria tradizionalmente poco incline a questo civile uso. Quanto ai conduttori, so che a volte a quelli bravi sul serio basta... un’alzata di sopracciglio per far capire all’interlocutore di turno disposto a capire (e che non ascolta solo se stesso) come stia rischiando lo “svarione” o lo abbia già fatto e che dunque possa e debba “recuperare”. Detto questo, sono totalmente d’accordo con lei su un punto centrale: poco a poco stiamo facendo piazza pulita di pregiudizi infami e luoghi comuni odiosi sulle persone con sindrome di Down. E tante voci riescono a comunicare l’amore e la gioia che un figlio Down accende e condivide come ogni altro figlio, e con speciale seppure mai facile bellezza. Peccato che contemporaneamente in troppi Paesi, non escluso il nostro, si punti semplicemente a non farli nascere più. Abortire un figlio con trisomia 21 non è “curarlo”, è rifiutarlo e irrimediabilmente scartarlo. Le parole sono davvero buone solo quando sono specchio di una vita buona, gentile amico. E cioè accogliente e rispettosa di ogni altra vita e, soprattutto e sempre, di ogni vita umana.

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