C'è un Mezzogiorno diffuso nel Paese e la Chiesa vuol prendersene cura
domenica 9 luglio 2023

Li chiamano “paesi dell’osso”, forse da quel che resta intorno a una polpa, a una vita, che quasi non c’è più e, poco alla volta, si stacca, si dilegua da un corpo malato. Sono i piccoli centri delle aree interne, sparsi lungo l’arco Appennino, la spina dorsale di un Paese che forse solo su questo versante non è diviso da un Nord e da un Sud e tuttavia guarda altrove, fin quasi a non riconoscere più una parte del suo territorio. Come un negozio che non assicura più profitti, sembra ormai pronta la serrata. È ben scarso, infatti, il fatturato complessivo delle aree interne e così tutta la catena, come un grande supermercato in crisi, rischia di mettere giù la saracinesca.

Certo le cifre sono quelle che sono, specchio di una realtà che si contorce intorno a se stessa: manca ormai la materia prima, la popolazione, il motore di una vita che naturalmente non conosce più il pieno regime. I giovani sono merce rara, e solo i “trolley” della spesa fanno ormai pensare ai passeggini dei bambini: “C’erano una volta” può essere il titolo aggiornato di una favola d’altri tempi, neppure tanto lontani, quando tra la piazza e il campanile scorreva la vita piena, e bella, di un paese che riusciva a bastare a se stesso. È da tempo che, a poco a poco, tutto è cambiato. Anche i piccoli spazi perlustrati più volte al giorno, diventati familiari come le quinte di casa, hanno cominciato a dilatarsi per il vuoto che si è fatto intorno. Sempre meno persone e sempre meno attività, un ritmo di vita abbassato, perfino i rumori attutiti, sempre più sbiaditi anche il quadro del mosaico, mai banale, di una vita quotidiana avvolta intorno a ritmi e abitudini. Viene poi sempre il momento del conto finale, quando tutti i segni si mettono insieme per comporre un risultato finito. Si scopre che il paese non è più a misura della vita corrente. Manca questo, non c’è quello, i servizi nemmeno a parlarne, anche la scuola, quella elementare, è a rischio chiusura; e il motivo non ammette repliche: non ci sono più alunni. Niente persone, niente servizi, un’equazione incontrovertibile. O forse no? Non sarà per caso che le persone son sempre di meno proprio perché non trovano quel che serve? È l’interrogativo più semplice e immediato, forse al limite dell’ingenuo, per arrivare alla vetta dei grandi quesiti utili a spiegare, in termini compiuti e scientifici, l’abbandono e la vera e propria serrata in atto nelle aree interne del paese. Conosciamo i numeri di questo drammatico “fine esercizio”. Circa un quarto dei giovani non trovano lavoro nell’area del Mezzogiorno. E chi lo trova, costretto ad emigrare, spesso con la laurea in tasca. E poi il vasto mercato di una precarietà che rende più forte la tentazione delle scellerate scorciatoie “offerte” dalla criminalità organizzata. A ricordarci, come un monito, queste derive, sono sempre più i vescovi a presidio di questi paesi dell’anima, o forse meglio delle anime sparse, preoccupati non solo delle chiese vuote, ma delle piazze, delle strade, delle scuole, dei ritrovi, perfino dei bar senza più avventori. È una vita che passa oltre e che, per l’addio, non sembra più conoscere né tempi, né stagioni. C’era, anche in passato, il momento di “andare in città”, per la scuola di grado maggiore, l’università o un tipo di lavoro che in paese non c’era. Ora a non esserci più è proprio il paese. E i numeri portati come pezza d’appoggio per questa scomparsa, più che una giustifica sono una triste e dolorosa ammissione di resa. I piccoli centri non rendono più, hanno un fatturato che non regge di fronte al “valore commerciale” della vita. La verità è questa, e il tempo della globalizzazione non può che acuire l’insofferenza, perfino la ribellione, perché è difficile accettare che il mondo sia un villaggio: ma solo in termini di mercato. È un gran bene che siano i vescovi, e di tutt’Italia, a tener vivo un problema di questa natura. Di questo loro impegno c’è già un risultato all’attivo, e non di poco conto. Le aree interne, disseminate lungo l’intera catena appenninica, hanno aggiornato, in maniera quasi automatica, i termini di quella vecchia “questione meridionale” che non poche energie e fatiche, oltre che delusioni, è costata a un episcopato meridionale da sempre alle prese con il dramma dell’emigrazione, prima generalizzata e poi soprattutto giovanile. Le zone interne sono oggi una “quota di Mezzogiorno” diffusa in tutto il Paese: una grande area di crisi afflitta da tutti i problemi che spianano le vie dell’esodo e dell’abbandono: i giovani senza prospettive di lavoro, i centri urbani lontani e non solo in termini chilometrici, una rete di servizi smagliata o inesistente, barriera naturale per la formazione di comunità e anche di famiglie.

Le cifre danno certo conto di tutto questo. Ma proprio ai vescovi che domani a Benevento, con la guida del presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi, riprendono in mano il filo di un discorso che hanno fatto proprio, vien da chiedere di guardare, sì, alle cifre, ma di esprimere in maniera sempre più forte l’allarme che da esse deriva. Troppe immagini, e tutte nel segno del dramma, a cominciare dalla guerra in corso, distolgono non solo lo sguardo ma il pensiero di fronte all’immagine di un piccolo paese che muore. Non c’è forse tristezza maggiore. Ed è esattamente ciò che sta avvenendo in molte aree del Nord e del Sud, laddove la modernità senza sviluppo ha trovato la via spianata, e il progresso, quello autentico, le strade sbarrate. È tutt’altro che una semplice iniziativa, la “cura” dei vescovi per le aree interne del Paese. La dimensione è quella di un fatto ecclesiale di straordinario rilievo come la corale presa in carica di una grande questione – si direbbe: la questione meridionale al tempo della globalizzazione –. E tanto grande che nessuna cifra riesce ormai a contenerla. E quindi i numeri non bastano. Conosciamo ormai quelle cifre. E se anche le ignorassimo, è il silenzio e anche il vuoto dei paesi, a scandire i tempi di un declino tanto amaro. I numeri sono talvolta solo lame spuntate di una giustizia che abita altrove.

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