C'è troppo inglese nel nostro italiano Vero, ma così è la vita (pure delle lingue)
giovedì 1 agosto 2019

Caro direttore,
vorrei tornare sull’articolo che giovedì 11 luglio ha dato conto del problematico risultato delle prove Invalsi per mandare un messaggio che da tempo avrei voluto inviare a giornalisti, parlamentari, governanti, imprenditori: parlateci in lingua italiana e non soffocateci con parole inglesi! Sono un appassionato lettore di “Avvenire” di cui leggo tutti i titoli e rispettivi occhielli, ascolto trasmissioni culturali, ho una buona cultura (sono laureato da oltre cinquanta anni, leggo quanto mi capita sotto gli occhi anche nelle sale d’aspetto dei medici), spesso scrivo e pubblico circa argomenti storici e sociali, ma devo ricorrere sempre al vocabolario quando incontro o sento parole in lingua inglese. Un esempio da “Avvenire” di martedì 9 luglio, pag. 8, titolo “Progetti e prospettive di crescita per far tornare i nostri giovani”, occhiello “Il fondatore di Employerland, start up specializzata nel recruiting di talenti”... Quanta gente italiana tralascia di conoscere il significato di parole inglesi che abbondano nel linguaggio pubblico, nei titoli, nelle insegne... Grazie comunque a chi lavora per la cultura e l’informazione.

Silvano Bracci Fano

Mi verrebbe da dirle “touché!” (toccato!). Espressione francese, caro amico, non inglese, propria dell’arte della scherma ma entrata nel parlar comune italiano (forse in quello un po’ più “alto”) ormai da secoli. Le dico subito che, da innamorato della nostra lingua, la penso più o meno come lei (e come tanti altri lettori). Perciò cerco, da sempre, di parlare e scrivere in un decente italiano. E per gli stessi motivi apprezzo moltissimo coloro che si battono per la difesa delle lingue di piccole minoranze che rappresentano autentici e affascinanti tesori dell’umanità (due esempi : uno molto vicino, il ladino, e uno appena più lontano, l’aramaico, la “lingua di Gesù”). Ma so anche che le lingue vive sono sempre in relazione tra loro, perché la relazione è condizione dello sviluppo della vita e il linguaggio è parte della vita. E so che tutti gli idiomi sono governati da una regola antica: le espressioni che riescono a offrire concetti complessi in forma sintetica finiscono sempre per prevalere. Accade nel parlato, nello scritto e ovviamente anche nelle titolazioni di giornale, dove gli spazi a disposizione sono in genere ridotti. L’inglese, che è ricco di efficaci espressioni sintetiche, sta “invadendo” anche per questo motivo il lessico degli altri idiomi, ibridandoli. Prima di prendere in esame le due parole che dominano l’occhiello da lei citato che introduceva l’intervista a un imprenditore titolare e amministratore di un’azienda che si chiama “Employerland” (provo a tradurre: “il Paese dei datori di lavoro”) e alla quale non possiamo cambiare nome, vorrei concentrarmi su un’altra parola. Potremmo definire quel capitano d’azienda anche il primo “manager” della sua impresa. Ebbene “manager” è una parola che dimostra in modo eloquente che cosa produce la relazione e lo scambio tra le lingue: è parola inglese, ma nasce dalla lingua italiana come derivazione del verbo “maneggiare” (in origine condurre cavalli, ma in senso lato governare una realtà pubblica o privata), entrata nel vocabolario inglese è poi rientrata stabilmente, nella nuova forma, nel lessico degli italiani! Un bell’andirivieni... E vengo ai due termini contenuti nel titolo che l’ha colpita. Il primo è “start up”. In italiano è ormai abituale, ed è usato in leggi e altri testi ufficiali. Invece di “start up” potremmo dire “impresa in fase di lancio”, ma sarebbe un’approssimazione: una definizione tecnica precisa è piuttosto “organizzazione di recente creazione che mira a diventare una grande impresa con un modello d’affari scalabile e ripetibile”. In un titolo non entrerebbe neanche a... martellate!. La seconda parola è “recruiting” e definisce sinteticamente l’attività di “selezione e reclutamento del personale”. Non siamo al livello precedente, ma il numero di sillabe e battute è a netto vantaggio della parola tecnica inglese. Tutto questo, caro dottor Bracci, non per osare – da non esperto quale sono! – affermare che lei ha torto, ma per mettere a fuoco i motivi per cui sotto i nostri occhi, nelle nostre orecchie e soprattutto nelle nostre teste sta accadendo questo incontro e si producono questi cambiamenti. Gliel’ho confessato, caro amico: un po’ come lei cerco di resistere e consiglio ai miei colleghi di fare altrettanto, usando meglio che posso l’italiano, a volte anche con espressioni semidimenticate. Dunque, non sono felice di tutto questo ribollire, ma ne sono incuriosito. Nella storia dell’umanità è già accaduto molte volte: basti pensare ai patrimoni linguistici originali che si sono generati dal latino e dal greco nell’incontro con le lingue semitiche e con quelle germaniche. E visto che gli esseri umani non sono riusciti, nonostante i lodevoli tentativi, a darsi una lingua comune per decisione “dall’alto”, continuo a sperare che l’«esperanto» del Duemila nasca poco a poco “dal basso”, magari con il contributo di qualche grande letterato che, come secoli fa il padre Dante con il volgare italiano, sappia dare piena dignità a una nuova lingua comune dei popoli che affianchi e non cancelli tutte le altre. In fondo, abbiamo qualche secolo per applicarci all’impresa.

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