Il dono nuovo del Dio fedele
sabato 22 luglio 2017

Fratello ateo, nobilmente pensoso, alla ricerca di un Dio che io non so darti, attraversiamo insieme il deserto. Di deserto in deserto, andiamo oltre la foresta delle fedi, liberi e nudi verso il nudo Essere, e là, dove la parola muore, abbia fine il nostro cammino
Davide Maria Turoldo, Canti Ultimi


La vita potrebbe essere raccontata come la storia delle sue crisi. La Bibbia è piena di queste storie, ma non ce ne accorgiamo perché nei testi biblici cerchiamo verità, parole religiose, consolazioni. E così ci perdiamo le pagine più grandi della Bibbia, che si aprono quando riusciamo ad arrivare agli uomini e alle donne che stanno dietro le parole di YHWH, a quegli esseri umani interi che le hanno pronunciate. La parola biblica non ci cambia finché non ci facciamo toccare nella carne dai suoi uomini e dalle sue donne, finché non diamo loro il permesso di entrare nelle stanze più intime della nostra anima, e di entrarci come persone concrete, con un nome e una storia, con le loro ferite, i dubbi e le maledizioni. Troppe volte la Bibbia salva poco o niente perché le consentiamo di toccarci poco o niente. Qualche rara volta, un personaggio biblico riesce a forzare la soglia, a infilarsi nel pertugio di casa rimasto aperto per sbaglio. Il personaggio diventa persona più reale e concreta dei nostri amici e dei nostri figli. Ci scompiglia l’arredamento degli interni e delle camere da letto. Se poi a entrare è Geremia, la casa viene messa sottosopra, e, forse, nel caos generale, possiamo ritornare poveri di cose e di Dio, e finalmente sentire aleggiare lo spirito, che nelle case con le porte chiuse e nei templi custoditi e protetti non riesce a soffiare. Troppa gente rimane fuori dall’orizzonte spirituale del mondo perché quando viene a trovarci entra in una casa con le finestre chiuse e troppo piena di cose ben ordinate, con un ossigeno insufficiente per poter respirare.

«Questa parola fu rivolta a Geremia da YHWH quando il re Sedecìa (...) gli mandò Pascur e il sacerdote Sofonia per dirgli: "Consulta per noi YHWH perché Nabucodònosor, re di Babilonia, ci fa guerra; forse YHWH compirà per noi qualcuno dei suoi tanti prodigi, in modo da farlo allontanare"» (Geremia 21,1-2). Fin dall’inizio, Geremia ha costantemente annunciato la discesa del nemico, l’occupazione del Paese, l’arrivo di una grande sventura. Ma i capi e i sacerdoti non lo hanno voluto ascoltare, ammaliati dai falsi profeti hanno creduto che il tempio fosse inespugnabile e Gerusalemme imbattibile. Ora, anni dopo, Nabucodònosor incombe ormai alle porte della città e inizia l’assedio; ma i capi del popolo, catturati dell’ideologia nazionalista, continuano ancora a pensare che si salveranno, che YHWH alla fine compirà «uno dei suoi tanti prodigi». Geremia continua a dire e ridire esattamente l’opposto di quanto il popolo vuole ascoltare. Non può fare altro, non è padrone delle parole che dice.
Non concede nulla ai sentimenti, e profetizza, spietato, la sventura totale imminente del popolo che ama. È questa forza-fragile che lo fa essere radicalmente fedele alla parola anche quando la tragicità del momento storico avrebbe potuto generare quella pietas umana e attenuato la durezza delle parole, schiarito i colori degli scenari cupi. Noi lo avremmo fatto e lo facciamo, ma i profeti veri no. Geremia profetizza la sola scelta possibile e buona: la resa, accettare la sconfitta, il fallimento, svegliarsi e ammettere la fine dell’illusione: «Chi rimane in questa città morirà di spada, di fame e di peste; chi uscirà e si consegnerà ai Caldei che vi cingono d’assedio, vivrà e gli sarà lasciata la vita come bottino» (21,9). Ma, nonostante il nemico sia già attorno alle mura, i capi illusi continuano a non credergli: «Voi dite: "Chi scenderà contro di noi? Chi entrerà nelle nostre dimore?"» (21,13).

Qui possiamo capire il valore immenso di quell’amico – profeta e non – che ha il coraggio di annunciarci la resa, quando i falsi profeti e le illusioni ci accecano. Di chi ci dice che dobbiamo solo portare i libri in tribunale, lasciar volare via chi abbiamo tanto amato, vendere quella scuola della comunità che racchiude l’eredità dei giorni del primo amore, arrenderci all’angelo della morte, per poterlo abbracciare da amico buono. E poi sentir risuonare dentro: «Beati i miti». Ma le persone e le comunità hanno una resistenza invincibile a credere alla parola che chiede la resa, perché amiamo troppo le illusioni e le false consolazioni. E così mentre la sconfitta è evidente a tutti, noi, consigliati spesso da falsi profeti, continuiamo a ingannarci, a investire energie infinite nelle lotte sbagliate, quando invece solo un "amen" ci potrebbe veramente salvare.
Ma l’oracolo non-ruffiano di Geremia al suo re non finisce qui. Geremia profetizza e annuncia non solo che YHWH questa volta (diversamente da quanto era avvenuto con gli Assiri per intercessione di Isaia) non interverrà per salvare il popolo, ma addirittura che agirà "contro" Gerusalemme: «Geremia rispose loro: "Direte a Sedecìa: Così dice il Signore (...): Io stesso combatterò contro di voi con mano tesa e con braccio potente, con ira, furore e grande sdegno…"» (21,3-5). Il Dio dell’Alleanza, della promessa, del Sinai e della Legge, non interviene e si mette dalla parte del nemico. Come mai? Ma YHWH non si era molte volte rivelato al suo popolo come il Dio fedele?

In questi eventi possiamo, allora, cogliere qualcosa di molto importante della grammatica biblica dei patti e della fedeltà. La prima interpretazione che si offre a chi legge la storia di tradimenti e di idolatria narrata da Geremia è quella di un Dio che si muove dentro un registro di reciprocità, che appare molto simile alla reciprocità dei contratti: il popolo non ha rispettato il patto, si è prostituito ad altri dèi, e Dio rescinde il contratto e applica le sanzioni previste in caso di inadempienza. Anche la lettura di Geremia suggerisce questa interpretazione, e noi la prendiamo sul serio – è sempre importante e doveroso prendere sul serio il messaggio che emerge dalla lettura prima e immediata di un testo biblico (e di ogni testo).
C’è un grande messaggio contenuto anche in questa prima lettura semplice e immediata. L’esperienza che Israele fa di YHWH è quella di un Dio fedele perché è un Dio di parola. Gli idoli non fanno alleanze, non le rescindono, non applicano le sanzioni del patto, perché semplicemente sono pezzi di legno, muti e morti. Il Dio biblico è un Dio vivo, è fedele perché è vivo, e quindi se è vivo rispetta anche lui i patti che stipula col popolo. Israele, e poi il cristianesimo e l’Occidente tutto, ha imparato a conoscere la serietà dei patti umani, e anche dei contratti, perché ha fatto l’esperienza di un Dio che è il primo a rispettarli. L’Alleanza è un impegno bilaterale, e resta alleanza vera finché la fedeltà dell’uno è la precondizione della fedeltà dell’altro. Attraverso la voce dei profeti, allora, il Dio biblico ci ha insegnato che il primo a prendere sul serio i patti è Dio stesso, e che tutte le infedeltà hanno conseguenze molto gravi. Solo un Dio serio e affidabile poteva essere il fondamento di una civiltà di persone capaci di mantenere i loro patti e le loro promesse, e di essere responsabili delle conseguenze dei patti spezzati, delle promesse non mantenute, delle bugie sulle nostre relazioni primarie.

Il Dio biblico, lo sappiamo, non conosce soltanto la reciprocità condizionale dei patti: è anche capace di altri amori, fino all’incondizionalità dell’agape. Ma se Dio ci avesse svelato un amore-agape che salta e dimentica l’amore dei patti e delle promesse, la sua parola non avrebbe potuto diventare la base spirituale e morale della vita degli uomini e delle donne, dove l’amore passa prima di tutto attraverso la fedeltà condizionale ai patti e alle promesse reciproche. Quelle dei matrimoni, delle società e delle imprese, delle comunità, che vivono di molte relazioni ma prima vivono di quell’amore laico e serissimo che si manifesta in parole pattizie e di alleanza, che sono parole vere proprio perché fatte di reciprocità, che vivono e nutrono la vita perché sono condizionali, finché le rispettiamo insieme, e finiscono quando finisce la reciprocità. Poi sappiamo anche che ci sono molti matrimoni, imprese e comunità che non muoiono perché una persona decide di andare avanti e di non mollare nonostante le infedeltà degli altri. Ma prima c’è la reciprocità feriale delle alleanze, che è il cemento della nostra società, senza della quale le nostre fedeltà-senza-reciprocità non potrebbero essere neanche capite, e si disperderebbero nel vuoto delle nostre parole-nulla. È la verità dei patti e dei contratti che rende immensa la non-reciprocità dell’agape.

La Bibbia – antico e nuovo testamento – ci ha rivelato un Dio capace di andare oltre il registro della reciprocità. Ci ha insegnato a perdonare settanta volte sette volte, ci ha rivelato un volto di Dio che dà la sua vita per i nemici e per gli ingrati. Ma tutto questo lo ha chiamato ancora >alleanza, sebbene nuova alleanza. E quindi ancora patto, ancora reciprocità: tutta nuova, ma ancora e sempre reciprocità. Il dio-senza-reciprocità è il faraone, che totalmente separato, indifferente e slegato dai suoi sudditi ne decide la vita e la morte. Il Dio biblico non è un Dio indifferente alla nostra reciprocità, è capace di superare il patto, ma resta un Dio pattizio. Non avremmo potuto capire il Padre misericordioso se, ieri e oggi, non avessimo fatto l’esperienza del dolore, della rabbia, dell’abbandono che ci procurano i figli prodighi che spezzano i patti e ci lasciano. È questo dolore per la non-reciprocità che ci può svelare il valore di un Dio diverso che ci aspetta sulla soglia dimentico della reciprocità – e da lì possiamo trovare ragioni e forza per continuare ad attendere i nostri figli, mariti, compagni di comunità infedeli. Grazie Geremia che, a ogni costo, ci hai mostrato il volto di un Dio affidabile perché fedele alle promesse. Senza la consumazione totale di quella prima alleanza, senza scoprire il valore che ha per Dio la reciprocità, non avremmo capito la nuova alleanza. I nostri patti e contratti si sarebbero sviliti e svuotati. Non avremmo capito quella reciprocità straordinaria che un giorno abbiamo chiamato Trinità. E non avremmo capito la gratuità vera, l’agape, che può risplendere in tutta la sua bellezza di paradiso solo quando abbiamo imparato il valore della fedeltà ai nostri patti e alle nostre alleanze.

l.bruni@lumsa.it

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI