martedì 13 settembre 2011
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Il popolo del Congresso eucaristico ha la maglietta rossa e gli occhiali di un volontario. Nell’afa della mattinata estiva chiede alla signora di spostarsi più in là perché dalla porta aperta della chiesa le arrivi aria fresca. Il popolo del Congresso fa la spesa tra le bancarelle del mercato coperto. Prosciutto, pesce, e uno sguardo allo striscione che denuncia il rischio precarietà: "La storia della città non si tocca. Il popolo del Congresso è il sacerdote che chiede di applaudire i manifestanti. Tra chi protesta per il lavoro ci sono padri di famiglia, spiega, non lasciamoli soli. Il popolo del Congresso è il vescovo che si mescola ai malati sul sagrato della Basilica: «Cara signora, è da un po’ che non ci vediamo. E sua sorella come sta?». Il popolo del Congresso è la ragazza da cui ho comprato una sciocchezza. Non ha il resto, niente sacchetti e, soprattutto, nessun sorriso. Nella sua tristezza, nella sua noia, c’è la ragione dei giorni marchigiani. Non un raduno d’élite ma una scuola per imparare a condividere la speranza, ad accettare le grandi e piccole fragilità quotidiane, che sono di tutti. Perché dare spazio all’Eucaristia vuol dire ritrovare le chiavi di casa, mette ordine nell’agenda dei giorni, assegna la  giusta importanza alle cose. Non sfugge la realtà chi si mette in ginocchio davanti a un’ostia consacrata, non cerca premi chi si alza presto per andare a Messa, non rifiuta gli altri chi sente il desiderio di solitudine. Anzi, il silenzio costa fatica e dalla preghiera quasi mai arrivano le risposte che vorremmo. Si apre il cuore per dare spazio agli altri, si fa tacere la fantasia per assaporare il respiro dell’Assoluto. L’Eucaristia nella vita quotidiana era il tema del Congresso di Ancona. Più che un titolo, una necessità, perché se non si partecipa a quel banchetto, si toglie aria allo spirito, si smarrisce il coraggio del perdono, le mani restano chiuse. E da quel tavolo non ci si alza mai: c’è sempre un ritardatario da accogliere, un malato bisognoso di cure, un amico scoraggiato. Togliere la sedia, sbarrare la porta, non fa parte delle regole. Il bello dei giorni marchigiani, spiegano i congressisti, è stato soprattutto il gusto di stare insieme, lo stupore di scoprirsi di nuovo comunità seduta allo stessa mensa. Il sacerdote accanto al padre di famiglia, il manager vicino all’operaio, il nonno con il ragazzino. Tutti chiamati, ciascuno a suo modo, al dovere, ma forse sarebbe più giusto dire alla bellezza, della condivisione con chi fa più fatica. Le emergenze di oggi sono la dittatura del mercato, il lavoro che manca, la velocità che soffoca gli incontri ed enfatizza le derive individualistiche, la dipendenza dalla tecnologia, spesso solo un modo nuovo di mascherarsi e nascondersi. Problemi che chiedono risposte innanzitutto politiche, certo. Però chi riesce a mettere l’Eucaristia al centro della sua esistenza, chi impara a ricevere bene il corpo del Signore, è chiamato a qualcosa di più. Nella debolezza della sua umanità si impegna a restituire il gusto di vivere all’emarginato, allena alla meraviglia chi crede di avere tutto. E sa insegnare il calore contagioso di un sorriso.
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