mercoledì 6 aprile 2016
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​Sono le 16,23 del 23 ottobre 2014. I carabinieri del Noe intercettano un colloquio tra il dirigente della Total, Giuseppe Cobianchi, e l’imprenditore Gianluca Gemelli. Questi, compagno dell’ex ministro Federica Guidi, riferisce al manager un colloquio avuto tre giorni prima per tentare di rassicurare un niente affatto tranquillo presidente della Regione Basilicata, Marcello Pittella. «Dico "Guarda, non ti preoccupare perché tanto non inquina..." (ride)». Una frase che evoca, facendo venire i brividi, la famigerata risata a due voci scatenata dall’imprenditore Francesco Maria Piscicelli in un colloquio col cognato intercettato il 6 aprile 2009, poco dopo la terribile scossa che aveva devastato l’Aquila. Piscicelli rideva per gli affari che sperava di fare su quel terremoto che aveva provocato 308 morti e 1.600 feriti. Gemelli ride, da solo, per gli affari sul petrolio in Basilicata, per i quali, come si è saputo ieri, i carabinieri del Noe stanno censendo i morti per tumore nella zona degli impianti. Risate e affari. Sull’ambiente e sulla vita delle persone.In questi giorni, tanto si è parlato e scritto della vicenda che ha visto coinvolti l’ex ministro dello Sviluppo economico e il suo compagno. Molto meno della parte dell’inchiesta relativa alle violazioni delle norme ambientali e ai conseguenti danni. La procura di Potenza, come abbiamo titolato domenica scorsa, indaga per disastro ambientale, reato ben precisato – e rafforzato – lo scorso anno dalla tanto attesa legge sugli ecoreati. La lettura degli atti dell’inchiesta conferma che qui sta il cuore di questa storia. E che, davvero, c’è poco da ridere. Come c’è poco da fare dietrologie. Le carte parlano, e puzzano di veleni reali. Nel sottosuolo della Basilicata sono finite in due anni 854mila tonnellate di acque di lavorazione del petrolio contenenti sostanze che non dovevano esserci, "rifiuti speciali pericolosi", fatti passare per "non pericolosi". Attività "illecite e arbitrarie" le definisce il gip nell’ordinanza. Una pratica nascosta attraverso trucchi, bugie, analisi taroccate, carte fatte scomparire. Lo sapevano in tanti, da dirigenti locali dell’Eni a funzionari regionali. Ma solo uno di loro, Paolo Baffari, come abbiamo raccontato ieri sulle nostre pagine, provò a bloccare l’evidente illegalità e il pesante danno ambientale. Invano. Anche se poi la sua testimonianza è stata cruciale.Ma l’inquinamento, secondo la più classica narrazione sui traffici illeciti di rifiuti, ha anche viaggiato per centinaia di chilometri. È quella parte di rifiuti speciali pericolosi, circa 600mila tonnellate, finiti fuori regione in impianti non autorizzati al loro smaltimento. Una grave violazione delle norme, un grave rischio. Ma anche qui nelle intercettazioni tra imprenditori c’era chi scherzava sulla "puzza" emessa da questi impianti e sulle proteste degli abitanti. Poco da ridere, in realtà. Anzi niente. Quei "cattivi odori" erano proprio il segnale dei reati ambientali commessi, di impianti inadatti. La soluzione? Autobotti dirette ad altri impianti ancora, sperando in cittadini col naso meno sensibile... Ma gli impianti inadatti che cosa producevano a loro volta? Dove e che cosa scaricavano?Sì, c’è poco da scherzare su un disastro provocato solo per "il profitto giusto" come si intitola uno dei capitoli dell’ordinanza di custodia cautelare per dirigenti Eni e funzionari regionali in cui si fanno anche i calcoli dei "risparmi" (!) conseguiti smaltendo illegalmente: tra 44 e 113 milioni. Ha davvero ragione il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti quando ripete che «la criminalità ambientale è un delitto d’impresa». Con profitti e risparmi fatti a spese dell’ambiente e sulla pelle della gente. Papa Francesco proprio su questo nell’enciclica Laudato si’ è stato chiarissimo. «Ancora una volta, conviene evitare una concezione magica del mercato, che tende a pensare che i problemi si risolvano solo con la crescita dei profitti delle imprese o degli individui. È realistico aspettarsi che chi è ossessionato dalla massimizzazione dei profitti si fermi a pensare agli effetti ambientali che lascerà alle prossime generazioni? All’interno dello schema della rendita non c’è posto per pensare ai ritmi della natura, ai suoi tempi di degradazione e di rigenerazione, e alla complessità degli ecosistemi che possono essere gravemente alterati dall’intervento umano». Già, c’è davvero poco da ridere, e molto da riflettere e da fare, rivedendo modelli di sviluppo e priorità. Senza aspettare l’intervento di investigatori e magistrati. Siamo ancora in tempo. Ma non troppo. La natura, la Terra, fanno altri conti e li pagano. Li paga la nostra gente. Li pagheranno, ancor di più, i nostri figli.
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