Avanti comunque
mercoledì 14 novembre 2018

Alla fine si è ottenuto un onorevole compromesso per quasi tutte le parti in gioco. L’Italia può rivendere la Conferenza di Palermo sulla Libia che si è chiusa ieri come un successo, dopo aver danzato pericolosamente sul bordo del fallimento internazionale. Tanti erano infatti gli assenti di peso – Trump e Putin, i leader europei – ma tutto sommato molti anche i presenti, cosa che ci permette di essere soddisfatti. Soprattutto perché possiamo ribadire la nostra centralità in Libia, a danno della Francia, ormai nostra avversaria su tante (troppe) questioni. Il capriccioso generale Khalifa Haftar ha mantenuto il centro della scena con la sua teatrale incertezza sul partecipare o meno: alla fine è venuto a Palermo, ha incontrato fuori meeting il premier Conte e l’odiato primo ministro libico Fayez al-Sarraj, sia pure senza accettare di partecipare ai lavori ufficiali. Poco importa, dato che alla conferenza hanno partecipato i suoi uomini. Il delegato Onu Ghassam Salamé ha ricevuto pieno sostegno per l’ennesimo piano di pacificazione, che ridà un po’ di carburante allo sfiatato motore della missione internazionale. Il governo di Tripoli guadagna qualche altro mese e il debole premier al-Sarraj ottiene, almeno sembra, anche il via libera di Haftar a che egli rimanga in sella fino alle nuove previste elezioni generali.

Certo, rispetto alle ambizioni iniziali, forse eccessive, ci si è dovuti accontentare di qualche presenza minore: un sottosegretario da Washington non è certo il presidente Trump che si voleva partecipasse. E il piccato abbandono della Turchia, marginalizzata nei vertici informali della mattina, dimostra che qualche sbavatura diplomatica c’è pur stata. Era del resto oggettivamente difficile far meglio, per una pluralità di ragioni interne e esterne.

Vi è innanzitutto la banale constatazione della situazione catastrofica dello scenario libico, con la polverizzazione di ogni autorità e il proliferare incontrollato di milizie in perenne agitazione. Nessun vertice potrà mai ricomporre magicamente un quadro tanto deteriorato, a livello politico, di sicurezza ed economico-finanziario. Al massimo, si può sperare che Palermo rappresenti il primo passo di un progressivo rafforzamento statuale della Libia, tramite una nuova Conferenza nazionale per organizzare – e finalmente tenere, dopo mille rinvii – delle elezioni credibili e unitarie. Perché ciò avvenga occorre tuttavia un cambio di passo non solo dei troppi centri di potere interni al Paese, ma anche dei vari sponsor regionali e internazionali che interferiscono pesantemente sul terreno. Egitto, gli Emirati Arabi e la Russia dietro Haftar, la Turchia e in parte il Qatar, a sostegno dei movimenti islamisti, non sembrano voler abbandonare una lettura dicotomica da Guerra Fredda della situazione libica. Ma non vi è alcun "checkpoint Charlie" da presidiare fra Cirenaica e Tripolitania: è tempo che le ambizioni geopolitiche e le ossessioni filo o anti-islamiste lascino il posto a uno sforzo collettivo per evitare il tracollo definitivo della Libia.

Una presa di responsabilità che dovremmo fare anche noi in Occidente: la rivalità fra Italia e Francia è ormai francamente stucchevole ed è aggravata dalla ormai cronica afasia geopolitica della Germania e dall’estemporaneo dilettantismo (e non solo su questo file) dell’Amministrazione statunitense.

Ma i lavori preparatori di questa conferenza hanno visto anche delle criticità interne al sistema Italia. Per mesi il nostro ministero degli Esteri e il suo timoniere, Enzo Moavero, è sembrato troppo solo nel gestire il processo: del resto la competenza in materia di politica estera non sembra abbondare fra i vertici di questo governo. E si è pagato forse anche la scarsa alchimia fra parte del governo e il sistema di intelligence, che la questione libica segue molto da vicino.

Eppure, alla fine, un passo avanti è stato comunque fatto e le sorridenti foto di rito sono state scattate: e da Palazzo Chigi si potrà esibire l’uno e le altre con soddisfazione. Ma ora dobbiamo tutti lavorare con meno annunci e più coesione. Perché i conti di un ennesimo fallimento li pagheremmo soprattutto noi italiani e i libici, dirimpettai nel mare comune, e responsabili di tanto e di tanti al cospetto del mondo e dell’inesorabile giudizio della storia.

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