sabato 11 maggio 2013
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Nella costruzione statutaria del Partito democratico, l’assemblea nazionale, un organismo pletorico di circa mille componenti, avrebbe dovuto rivestire una funzione più che altro simbolica, mentre le funzioni operative venivano riservate alla direzione e alla segreteria e quelle elettive ai congressi e alle consultazioni primarie. Il meccanismo, però, si è inceppato già due volte nel giro di cinque anni: i due segretari e candidati premier scelti con congressi e primarie, Walter Veltroni e Pierluigi Bersani, si sono dimessi senza concludere il loro mandato, il che ha conferito all’assemblea la funzione essenziale di eleggere il loro successore. Se nella tornata precedente l’elezione alla segreteria di Dario Franceschini, vicesegretario in carica, era avvenuta in modo abbastanza pacifico, oggi quella prassi non si può ripetere, perché il vicesegretario, Enrico Letta, è nel frattempo diventato presidente del Consiglio dei ministri. Così l’assemblea – al di là dell’accordo trovato sul nome di Epifani come segretario-traghettatore verso il congresso – si riunisce senza un percorso davvero predeterminato, il che rappresenta un’immagine plastica di un partito che regredisce verso una formula assembleare.Formazioni politiche a vocazione minoritaria, che hanno l’obiettivo di esprimere e massimizzare la protesta dandole uno sbocco politico di opposizione, possono forse reggersi su una struttura assembleare (anche se, nella fase attuale, soggetti politici di questo tipo si sono aggregati attorno a figure leaderistiche). Il Partito democratico, però, è la maggiore forza parlamentare del Paese, detiene la presidenza del Consiglio, ha scelto e assegnato quelle della Camera e del Senato, ha concorso in modo decisivo a confermare Giorgio Napolitano al Quirinale... Sulle spalle del Pd grava, quindi, una grande responsabilità e davanti al partito si aprono prospettive nuove e di immenso rilievo: quella di guidare e co-gestire il passaggio dalla fase dell’austerità coatta al tempo della ricostruzione delle condizioni per la crescita, quella di dotare le istituzioni, riformandole, dell’efficienza e della capacità di decisione democratica necessaria per reggere la competizione e per fornire risposte alla situazione drammatica di tanta parte della popolazione, quella di evitare che questioni seriamente divisive e niente affatto prioritarie vengano catapultate al centro del dibattito minando ulteriormente le possibilità di uscire con successo da questa cruciale transizione.

Si capirebbe una discussione anche aspra sul modo migliore di affrontare tutto questo, dibattito sul quale costruire una nuova dialettica interna al Pd non più basata sulle antiche appartenenze a partiti e correnti co-fondatori. Invece, si ha l’impressione che la "regressione assembleare", cioè l’incapacità dei gruppi dirigenti di fornire indicazioni e proposte coinvolgenti e convincenti, sia la conseguenza del prevalere di logiche retrospettive, di ritorsioni e persino di spiriti vendicativi.La delusione per il risultato elettorale che ha imposto alla fine un compromesso con gli avversari di sempre, che può essere il riferimento da cui partire per un esame critico sulla funzione nazionale e di rinnovamento non pienamente esercitata dal partito, sta producendo invece una confusa pulsione autodistruttiva, una ricerca di "colpevoli" invece che di soluzioni. Se poi, come propone una combattiva minoranza interna al Pd, la logica assembleare deve essere estesa anche al Parlamento, col sostanziale abbandono della compagine governativa alla sua sorte, la crisi di un partito si estenderà alle istituzioni, con effetti incalcolabili. Nel Pd, anche nella base del Pd, probabilmente è prevalente il senso della responsabilità e della funzione nazionale del partito, ma questa maggioranza appare intimidita e disorientata, priva di una guida e di punti di riferimento sicuri. C’è da sperare che anche nel clima assembleare, che non è certo il più adatto, questa tendenza, in cui si esprime lo spirito di conservazione del partito, riesca a esercitare un peso decisivo.L’occasione che si presenta oggi per affrontare temi critici, che sono rimasti bloccati per due decenni dalla tensione tra coalizioni durissimamente contrapposte, è complicata e straordinaria. Sarebbe davvero un peccato, per il Pd e soprattutto per la democrazia italiana, non coglierla, precipitando di nuovo il Paese in uno stato di confusione e di tensione senza sbocco e, dunque, dagli esiti assai rischiosi.

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