domenica 25 marzo 2012
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Dopo la riforma delle pensioni, che ha catapultato nel mondo reale le generazioni più giovani, escludendole dagli insostenibili (e, per troppi, irraggiungibili) privilegi che si erano attribuiti quelle precedenti, l’intervento sul mercato del lavoro sembra andare nella direzione di aggiornare regole e tutele rispetto alla vera dinamica che da tempo caratterizza i rapporti tra lavoratori (tutti i lavoratori) e imprese. La norma più temuta, quella sui licenziamenti, ha ancora margini di miglioramento in modo da evitare che i datori di lavoro meno illuminati possano essere agevolati nel commettere abusi. Ma in un mercato nel quale ormai l’80 per cento delle assunzioni avviene con contratti a termine, cioè con la data di “scadenza” già scritta all’inizio del rapporto, è evidente che buona parte del confronto sia avvenuto in nome di modelli sociali e culturali estranei a una persona con meno di 35–40 anni. Quello che più dovrebbe angosciare e preoccupare, in questo momento, non è ciò che potrebbe accadere con le nuove regole, ma quello che avverrà comunque nei prossimi mesi, anche senza le nuove regole. A molti continua a sfuggire che l’Italia è ripiombata in una fase di recessione economica, la seconda in meno di tre anni. Una crisi che si ripresenta mentre siamo costretti – dai mercati, dall’Europa o anche solo dal buon senso: il motivo ormai conta poco – a dover risanare conti compromessi da decenni di finanze e spese un po’ troppo allegre. Questo, in soldoni, vuol dire che mentre la nuova crisi mostrerà il suo volto peggiore, il Paese sarà obbligato a fare l’opposto di quello di cui avrebbe bisogno, trovandosi nella necessità di tirare e far tirare ulteriormente la cinghia alle famiglie. Il premier Mario Monti ieri è stato duro, ma drammaticamente realistico, quando ha affermato che «dall’emergenza non si esce in un anno» e che per il 2012 non si può promettere il ritorno alla crescita, ma, se va bene, «meno recessione». Il Centro studi della Confindustria, l’associazione delle maggiori imprese, ha già anticipato che l’acuirsi della crisi, non la revisione dell’articolo 18, produrrà ancora quest’anno una diminuzione degli occupati. Non è un momento facile e non lo sarà per molto. In pochi anni gli italiani si sono impoveriti assai più di quello che il dibattito pubblico riesce a descrivere. Il reddito familiare oggi è più basso di quasi due punti e mezzo rispetto a quello di vent’anni fa, il livello di consumi e il Pil sono tornati al 1998, indietro di 14 anni, il risparmio delle famiglie è sceso a solo il 6 per cento del reddito, dal 17 per cento del 1990, e continua a calare. È in questo scenario che tra poche settimane prenderà il via la prevista – e «inevitabile», a detta del premier – raffica di aumenti delle tasse: prima il conguaglio delle nuove addizionali regionali, poi la prima rata dell’Imu sulle abitazioni a giugno, e ancora i possibili ritocchi all’Iva da ottobre… Niente male per un Paese che vanta già la pressione fiscale più alta in Europa. Una domanda, alla politica, agli economisti e alle forze sociali, è più che mai lecita in questo momento: quanto a lungo può resistere, un Paese, in una tale situazione di assedio? Ha ragione il premier quando sottolinea che se i problemi non fossero stati negati poco più di un anno fa, il peso delle tasse oggi avrebbe potuto forse essere inferiore. Ma di quanto, poi? O gli errori attraversano invece i decenni, gli schieramenti e molte categorie di intellettuali? Non preoccupa il calo a due cifre degli italiani che quest’inverno si sono concessi una settimana bianca, e nemmeno l’aumento record dei prezzi dei carburanti, con il conseguente crollo dei consumi di benzina. Il timore è che si perda di vista la necessità di uno sforzo comune per individuare, fuori dagli steccati dell’ideologia, le riforme più importanti per aiutare le famiglie a continuare a respirare, mentre l’acqua sale. Il rinvio della delega fiscale, e della possibilità di introdurre 'premi' ai nuclei con bisogni reali, come timidamente accennato da Monti quando nei giorni scorsi ha riconosciuto il valore del "fattore famiglia", è in tal senso un segnale preoccupante. Che si ritrovi in fretta il senso della realtà e delle priorità è l’auspicio che torniamo a esprimere.
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