domenica 19 gennaio 2014
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L’uomo ischeletrito giace su­pino e nudo su una tavola, solo i fianchi cinti da uno straccio. La luce disegna per­fettamente sotto la pelle del torace le costole; la testa nell’abbandono della morte è reclinata indietro, il colorito è terreo. L’immagine è di oggi, eppure ha in sé qualcosa di antico che al primo mo­mento l’osservatore stenta a decifrare. L’uomo nella foto della Associated Press è morto di fame a Yarmuk, campo profughi palestinese nei sobborghi di Damasco. So­no rimasti in ventimila, nelle baracche che dagli anni 50 ospitavano duecentomila profughi. Tutti quelli che hanno potuto, so­no scappati ancora: in Libano, in Giorda­nia, profughi di nuovo, e, si direbbe, per destino. Quelli che invece a Yarmuk sono rimasti, i più poveri, vivono da mesi sotto assedio. In trappola fra l’esercito lealista siriano e i miliziani ribelli, nel campo man­cano cibo e medicinali. Giorni fa un con­voglio dell’Unrwa ha cercato di portare aiu­ti, ma è stato costretto dal fuoco incrocia­to a tornare indietro. A Yarmuk si comin­cia a morire di fame. Le immagini da laggiù mostrano macerie e rottami, e alte colonne di fumo nero: bombe, e i falò che gli abitanti accendono, per scaldarsi, in una città in cui manca la luce, e l’acqua è razionata. L’uomo della fo­tografia è morto di fame il 10 gennaio. Al­tri, una quarantina, lo hanno già seguito. Bambini, come la bimba la cui foto della tragedia di Yarmuk sta diventando il sim­bolo. In un viso livido, due enormi occhi neri che con l’ultima energia vitale fissano l’obiettivo, attoniti, come in una sbalordi­ta domanda. Un’altra foto mostra un’ado­lescente con una gran treccia nera; e anche sul volto di lei la spossatezza atroce di chi è morto per fame. Per fame, in un assedio, come mille anni fa, quando gli eserciti stringevano in una mor­sa le cittadelle fortificate, e senza cibo né acqua, dentro, la morte falciava a piene mani. Che accada ancora oggi di morire in un assedio, ci pare incredibile. Ma gli ap­pelli delle organizzazioni umanitarie sono finora rimasti inascoltati. Nessuno dei due contendenti fa un passo indietro, e la co­munità internazionale resta a guardare. La condanna di Yarmuk ci pare, da lonta­no, così assurda. Assurdo che mentre le fo­to da laggiù arrivano in un istante sul web nelle nostre case, mentre gli uomini sono stati capaci di un simile progresso tecno­logico, quello etico invece sia come fermo ancora a secoli remoti. Non basterebbe in fondo che lealisti e miliziani guardasse­ro per un momento la fotografia di quel­la bambina, per una tregua almeno, che consenta ai convogli umanitari di passa­re? Ma gli uomini, nell’odio diventano ciechi. Indifferenti davanti a bambini dell’età dei loro figli, annichiliti dalla fa­me. Quegli uomini a Damasco, l’altro giorno, hanno lasciato che un convoglio di aiuti tornasse indietro. Nessuno ha vo­luto smettere di sparare. È il male, il nostro umano male ciò che ci sbalordisce in queste immagini, nella loro perfetta definizione, nel loro saper corre­re sul web e farsi accessibili al semplice no­stro schiacciare un tasto, diecimila chilo­metri lontano. È quel fattore così dram­maticamente umano che ci sta scritto den­tro, come un marchio indelebile. (L’uomo ridotto a pelle e ossa su una tavola, vittima sacrificale di una guerra civile, che cosa ci ricorda, che pare familiare? Non, forse, la deposizione di Cristo dalla croce? Quel cor­po esanime, terreo, dall’odio trasfigurato quasi in materia, in povera inerte cosa). Apriamo gli occhi, allora. Ritroviamo la vo­ce. A Yarmuk, tutto l’orrore della guerra di Siria è come riunito e distillato in gocce pe­santi, amarissime. E niente di questa ter­ribile e ingiusta sofferenza ci è estraneo, niente ci assolve dall’indifferenza.
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