domenica 11 marzo 2012
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Nello stesso giorno in cui l’inviato speciale delle Nazioni U­nite, l’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan, ha in­contrato Assad, le fonti dell’opposizione hanno divulgato la notizia che dodici alti ufficiali delle Forze Armate del regime si­riano avrebbero defezionato, così contribuendo ad avvalorare un interrogativo che molti – in Siria, nel mondo arabo e in Oc­cidente – pongono con forza: che senso ha cercare ancora un dialogo con un dittatore il cui destino appare ormai irrimedia­bilmente segnato e che nonostante ciò continua a massacrare senza alcuno scrupolo il suo popolo in rivolta? Perché mai le stesse Nazioni Unite, che appena pochi giorni fa si sono dette «scioccate» dallo spropositato e inumano livello di violenza della repressione del regime, sembrano ostinarsi a voler riconoscere ad Assad lo status di interlocutore, invece di essere conseguenti alle loro stesse denunce e trattarlo per quel criminale che è? La risposta è in realtà semplice e illustra drammaticamente tut­ta la delicatezza della situazione in cui questo sfortunato Pae­se si trova. Chi sta seguendo la ormai lunga vicenda siriana con attenzione (la rivoluzione, il prossimo 15 marzo entrerà nel suo secondo anno) sa bene che l’attuale segretario generale Ban Ki–moon non ha certo usato perifrasi o giri di parole per con­dannare con la massima durezza l’operato del regime siriano. Anche nella sua visita a Beirut di qualche settimana fa, cioè nel­la capitale di un Paese in cui la Siria è tornata a esercitare una pesantissima influenza e il cui governo è imperniato sul movi­mento di Hezbollah legato a doppio filo a Damasco e Teheran, Ban Ki–moon ha dichiarato in un’occasione pubblica e solen­ne che «i regimi che massacrano il proprio popolo perdono qualunque legittimità». Negli ultimi mesi, il segretario ha di­spiegato ogni sforzo suo personale e della diplomazia del Pa­lazzo di Vetro per cercare di ottenere un pronunciamento di a­perta condanna e la conseguente adozione di sanzioni nei con­fronti della Siria di Assad. Con scarsi risultati, però. La Russia e la Cina hanno ribadito, anche dopo che l’Assem­blea Generale si era espressa in tal senso, di essere pronta a e­sercitare il diritto di veto verso qualunque risoluzione del Con­siglio di Sicurezza ostile alla Siria e nulla, a cominciare dall’e­sito delle elezioni presidenziali russe, lascia intravedere un pos­sibile mutamento nelle posizioni di Mosca e Pechino. Non solo. Appena poche ore fa, l’amministrazione americana ha ribadito che l’ipotesi di un suo intervento militare nella re­gione non è da prendere in considerazione neppure nelle for­me di un appoggio a un’azione multilaterale intrapresa sotto l’egida della Lega Araba. Anche perché il presidente Obama ha già la sua brutta gatta da pelare tra la sfida nucleare iraniana e il tentativo di tenere a bada il riottoso alleato israeliano, che da qui a novembre potrebbe esser tentato di trarre qualche van­taggio dalla campagna elettorale per la presidenza americana. La stessa Lega araba, peraltro, dopo i segnali di attivismo e in­terventismo dei mesi scorsi, sembra essere tornata al consue­to e più prudente (o inconcludente) atteggiamento che le è consono. In queste condizioni lo scenario che sembra farsi più probabi­le per la Siria non è quello di tipo libico – con l’abbattimento di un regime tirannico il cui esito viene accelerato dal decisivo in­tervento militare esterno –, piuttosto quello di una guerra civi­le prolungata in cui la caduta del regime avverrà a un costo al­tissimo, senza peraltro che ciò sia in grado di porre fine al ter­rore, alle vendette e a una scia di sangue già oggi spaventosa. Nonostante fatti come l’insensato bombardamento di Gaza da parte israeliana avvenuto proprio ieri costituiscano un ogget­tivo aiuto al regime, favorendo il suo gioco di rivendicare il ruo­lo di Paese in prima linea contro il “comune nemico sionista”, sono molto pochi infatti a pensare che la dittatura degli Assad possa sopravvivere. Nell’impossibilità di un più diretto coinvolgimento della co­munità internazionale nella soluzione della crisi, ciò che Ban Ki–moon sta quindi cercando di ottenere è quantomeno evi­tare che alla fase attuale di violenta quanto inutile repressione da parte del regime faccia seguito una guerra civile sempre più barbara e aspra, in cui tutti quelli ritenuti – a torto o a ragione – coinvolti nel sostegno all’assadismo finiscano con l’essere og­getto di vendette arbitrarie, a cominciare dalle minoranze re­ligiose di cui la Siria è ricca. Non si tratta di riconoscere ad Assad lo status di interlocutore nella soluzione politica del dopo–Assad; ma di convincerlo del­l’ineluttabilità della transizione e della possibilità di rendere il processo e il suo esito scontato il meno sanguinario possibile. Un tentativo forse disperato, ma mai quanto l’assistere inerti al prossimo scatenarsi di una violenza sempre più cieca e fe­roce.
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