venerdì 18 ottobre 2019
Le dimissioni del comandante Giani, uscito a testa alta e con l’affetto del Papa, portano in luce i cambiamenti di un corpo il cui compito ormai va oltre la sola sicurezza
Domenico Giani con papa Francesco (Ansa)

Domenico Giani con papa Francesco (Ansa)

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Nessun atto come le dimissioni del comandante della Gendarmeria vaticana Domenico Giani, comunicate lunedì 14 ottobre, sembrerebbe confermare l’esistenza di lotte di potere e di conseguenza l’instaurazione di un clima da ultima spiaggia all’interno della Città-Stato del Vaticano. È questa la lettura ricorrente e – quantomeno – non inappuntabile che accompagna le ultime vicende culminate con la nomina, il giorno successivo, del nuovo responsabile, l’ingegnere Gianluca Gauzzi Broccoletti. Ma esistono dimissioni e dimissioni. E quelle di Giani, che dal suo delicatissimo ruolo esce a testa alta e con attestati non certo formali di fedeltà e di gratitudine (eloquente al massimo livello il gesto del Papa che la sera di martedì si è recato in visita a tutta la famiglia), si prestano a spostare il discorso su un piano un po’ più alto del semplice scontro di potere, diventato quasi un mantra nel descrivere una vita quotidiana in Vaticano mai tanto difficile e tormentata.

Più di ogni altro organismo, la Gendarmeria può essere presa a modello dei forti cambiamenti avvenuti negli ultimi tempi in Vaticano: non quelli legati al pur notevole quadro di riforme di ordine pastorale avviate dal pontificato di Francesco, ma quelle – di fatto più radicali – direttamente modellate dai tempi nuovi, e che non hanno bisogno, per imporsi, di nessun input particolare. Di fronte al tema della giustizia e dell’ordine pubblico quel «tanto di territorio che basti come supporto della sovranità stessa» – così come Pio XI definì lo Stato della Città del Vaticano dopo la firma del Trattato e del Concordato con l’Italia – si è trovato nelle condizioni di doversi confrontare in campo aperto con le sfide di una modernità che, senza chiedere permessi o visti di ingresso, ha fatto irruzione da più parti al di là delle Mura leonine.

Chi l’ha vissuto dall’interno ha potuto verificare come la vita quotidiana della città del Papa abbia preso, d’un tratto, un altro passo. Dovendo regolare il transito dall’esterno di migliaia di persone al giorno, a cominciare dai circa quattromila dipendenti tra ecclesiastici e laici, la gendarmeria inevitabilmente ha finito per regolare, in larga parte, anche i tempi, i modi e soprattutto lo stile di accoglienza del Vaticano. Quando, nel luglio del 2002, da Corpo di Vigilanza assunse il nome di Gendarmeria e configurò il suo assetto definitivo con l’istituzione della Direzione dei Servizi di sicurezza e Protezione civile (articolata nei due bracci operativi del Corpo della Gendarmeria e dei Vigili del Fuoco) la svolta era già compiuta. Non si trattò di un semplice cambio di denominazione, anche perché il passaggio ebbe per protagonisti due simboli che, per le rispettive personalità, non potevano che segnare a fondo il loro tempo. Il primo, il commendatore Camillo Cibin, un galantuomo di stampo antico, ligio al dovere come e più di un militare (pur senza esserlo), quasi 60 anni di appartenenza al Corpo, gli ultimi 35, fino al 2 giugno 2006, direttamente alla guida di una pattuglia di uomini a sua immagine e somiglianza: discreti, attenti – più di occhi che di strumenti –, sostanzialmente impegnati in forme di controllo ordinario e di vera e propria vigilanza urbana. Neppure l’attentato, subìto da Giovanni Paolo II in piazza San Pietro il 21 maggio 1981, era riuscito a modificare un atteggiamento che sembrava tagliato su misura per le caratteristiche del piccolo Stato.

Poi venne l’11 settembre 2001, con il barbaro attentato alle Torri Gemelle, appena l’anno dopo la conclusione del grande Giubileo del Duemila che, per la straordinaria serenità di svolgimento, aveva rafforzato la dimensione quasi domestica della città del Papa. Ma il cambio di scena era alle porte. Innanzitutto a quelle d’in- gresso in Vaticano, dove accanto agli occhi vigili dei gendarmi ecco apparire card e tessere magnetiche, con la segnalazione di movimenti e spostamenti. E altre tessere spuntarono fuori per i carburanti, i magazzini, l’annona, gli ingressi agli ambulatori. Insomma, uno Stato riconvertito, e in fretta, in versione digitale. E appena fuori da piazza San Pietro e dai varchi del colonnato, il fitto schieramento di rapiscan per il controllo personale rafforzato, sotto la minaccia di attentati, da sbarramenti e chiusure di strade (come via della Conciliazione, chiusa e mai più riaperta dopo la conclusione del Giubileo straordinario della Misericordia, quasi cinque anni fa). Non basta. All’interno della Gendarmeria nasceva un nucleo speciale anti-sabotaggio. Nessuno avrebbe forse mai immaginato gli 'angeli del Papa' in tute e maschere antisommossa. Si parla di 'militarizzazione' eccessiva, e Domenico Giani lo sa.

Giani, l’altro protagonista, è a capo dal 3 giugno 2006 – dopo anni di collaborazione con lo stesso Cibin – di un Corpo e di un cambiamento segnato certo da un aggiornamento più spinto ma senza che la professionalità intaccasse mai uno spirito di dedizione e un tratto umano di prim’ordine. Un comma del nuovo Regolamento sembra fotografare una condizione in qualche modo riconducibile allo stile del comandante: è il punto che parla di Corpo caratterizzato da una «natura civile» ma, allo stesso tempo, «militarmente organizzato ». Un doppio ruolo non facile da esercitare, soprattutto di fronte alla semplice constatazione che «il Papa non può stare sotto una campana di vetro». E papa Francesco meno che mai.

Il Vaticano non ha ponti levatoi e si è trovato in casa un mondo e una vita cambiati, che poteva al massimo regolare ma non certo annullare o mandare indietro. Per quanto preparato, il passaggio di consegne tra Cibin e un ufficiale proveniente dalla Guardia di Finanza italiana come Giani non poteva non dar luogo a qualche scossone. Più che un cambio di gestione si trattava, in realtà, di un cambio d’epoca, e allo stesso tempo dell’avvio di un difficile processo di congiunzione e armonizzazione tra le nuove esigenze di ordine pubblico e una legislazione ancora legata alla visione e alla dimensione di una enclave nel cuore di Roma. Si poneva quindi la necessità, sulla base dei criteri di trasparenza sollecitati con forza da papa Francesco, di adeguare a parametri internazionali le procedure correnti e, allo stesso tempo, dar vita a nuovi organismi e attivare l’adesione a convenzioni interstatali. Tutta materia di diretta, seppur non esclusiva, competenza della 'nuova' Gendarmeria, nel pieno rispetto dei ruoli con la magistratura vaticana sempre più impegnata a vigilare sul corpus di nuove leggi – particolarmente nella sfera economico- finanziaria – scaturite dalle riforme avviate da Benedetto XVI e portate avanti da Francesco. Una vera e propria svolta, ma anche un cammino impegnativo e delicato per uno Stato uguale e neppure simile a nessun altro nel mondo e nel quale, come conseguenza delle modifiche al Codice penale e a procedure sempre più applicate all’interno delle Mura, sono riapparse e sono state utilizzate le celle di detenzione, sistemate nello stesso stabile del Tribunale. Qui – come mai era accaduto in passato – hanno avuto luogo processi basati tutti su indagini condotte dalla Gendarmeria dello Stato.

Un salto in avanti forse fin troppo repentino, ma i cambiamenti non sempre bussano per chiedere permesso e tengono poco conto dell’atipicità di uno Stato che ha come propria bussola e carta costitutiva il riferimento al Vangelo. Così, con un piano di riforme in corso sui versanti propri dell’assetto pastorale, il Vaticano si è trovato per un tempo non breve alle prese con altre urgenze e di altro tipo. Non è difficile capire come qualche passo falso sia stato originato da incomprensioni o conflitti di competenze maturati anche al momento, paradossalmente proprio sulla base di riforme incomplete o in attesa di perfezionamenti. Ma un altro aspetto è parso significativo nella vicenda Giani, nel senso che ha reso esplicito ancora una volta, e in un campo così decisivo come quello della giustizia, il criterio della Misericordia che papa Francesco ha posto ad architrave del suo pontificato. Il Papa non ha esitato a privarsi dell’apporto intelligente e fedele di un suo stretto collaboratore poiché nella vicenda della perquisizione in Segreteria di Stato ha ravvisato la colpa maggiore – pur non imputabile direttamente al comandante – nella diffusione dei nomi, oltre che delle foto, delle cinque persone raggiunte dal provvedimento di sospensione. Un modo per indicare un concetto di giustizia da applicare con priorità alle persone offese: potremmo dire le persone al momento più deboli del caso in questione.

C’entra la giustizia, ma ancor più c’entra la Misericordia: e senza che l’una e l’altra entrino in conflitto.

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