giovedì 10 luglio 2014
Il calo delle richieste di accogliere minori e una nuova prospettiva: è la comunità che chiede di dare una fmaiglia a chi è solo. (di Rosa Rosnati)
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​L’Italia è il primo Paese in Europa per numero di adozioni internazionali, secondo solo agli Stati Uniti a livello mondiale. Il primato, che dura dal 2008, si accompagna a un dato di segno diametralmente opposto: quello che ci vede come uno tra i Paesi con il più basso tasso di natalità al mondo. L’adozione, a fronte di poche nascite, è insomma un modo piuttosto diffuso di fare famiglia. Dal 2001 al 2013 i bambini accolti in famiglia attraverso il canale dell’adozione internazionale sono stati 41.702, e 13.759 i bimbi italiani adottati dal 2004 al 2012. Tra le 4 e le 5mila adozioni in media ogni anno.
 
Da qualche tempo, però, le cifre evidenziano una generale flessione. Per quanto riguarda le adozioni internazionali, dopo più di un decennio di crescita esponenziale, che ha fatto registrare il picco nel 2010 con 4.122 minori entrati in Italia, si è registrata un’inversione di tendenza arrivando a 2.825 adozioni nel 2013. Il calo interessa invece solo marginalmente le adozioni nazionali e, più nello specifico, riguarda il numero di sentenze di adottabilità pronunciate nei confronti di minori non riconosciuti (Legge 149, articolo 11), che sono state 330 nel 2011. Questa tendenza è ovviamente riconducibile alla diminuzione delle gravidanze non desiderate, mentre hanno subìto variazioni meno significative le dichiarazioni relative ai minori con genitori noti (all’articolo 12), che sono state 847 nel 2011.
Si può allora parlare di crisi dell’adozione? Innanzitutto bisogna dire che questa tendenza non riguarda solo l’Italia. Già a partire dal 2006 in quasi tutti i Paesi occidentali si è registrato un calo anche sensibile nelle adozioni internazionali. Sembra dunque che il nostro Paese si sia semplicemente "allineato" a questo trend, seppure con un paio di anni in ritardo. Uno dei motivi principali di questa "battuta d’arresto" potrebbe essere ricercato nella diminuzione dei minori adottabili. Molti dei Paesi di provenienza dei bambini hanno infatti incominciato ad attuare politiche sociali e di prevenzione, in alcuni casi in accordo con quanto stabilito dalla Convenzione dell’Aja nel 1993, cercando di rimuovere o almeno arginare le cause che portano all’allontanamento del bambino dalla sua famiglia, incentivando misure alternative come l’affido o l’adozione nazionale. E solo quando tutte queste strade siano state percorse senza successo, diventa possibile avviare il percorso dell’adozione internazionale. Accanto a questo calo dell’"offerta", per dirla in termini economici, si registra anche una riduzione della "domanda": nel 2006 le coppie disponibili all’adozione di minori italiani erano 16.538, nel 2011 erano scese a 9.795, l’anno successivo sono salite leggermente a 10.944. Per quanto concerne invece le domande di disponibilità all’adozione internazionale nel 2007 erano 6.867, nel 2012 sono scese a 5.057.Questo calo generale delle domande di adozione pone una serie di interrogativi, ma non deve suscitare inutili allarmismi. Il numero di coppie disponibili all’adozione rimane infatti di gran lunga superiore a quello dei minori adottabili. Per l’adozione nazionale ci sono più o meno dieci coppie disponibili all’adozione per ogni bambino dichiarato adottabile. Dunque si può scegliere tra un buon numero di potenziali "candidati" la coppia che si ritiene più idonea ad accogliere un minore con la sua storia e i suoi particolari bisogni.
I fattori che incidono sul calo generale delle adozioni sono molti: la crisi economica, l’insicurezza in cui versano molte famiglie, le lungaggini burocratiche, gli intoppi, i contrasti tra servizi e famiglie, gli scarsi sostegni, anche di ordine economico, forniti alle famiglie. Senza parlare del dramma, per fortuna quasi per tutti a lieto fine, dei bambini adottati in Congo! Tutto ciò contribuisce ad avvolgere l’adozione di un alone negativo. E d’altronde non si può non pensare anche alla diffusione di una maggiore consapevolezza circa il fatto che l’accoglienza di bambini con alle spalle una lunga istituzionalizzazione, oltre che traumi, abusi, e trascuratezza, richieda delle competenze genitoriali particolari. E che il bambino in adozione non possa riempire tout-court il vuoto dovuto all’assenza di figli.
D’altra parte i bambini che arrivano in adozione sono bambini grandi, con una età media di quasi 6 anni, spesso coppie di fratelli, bambini portatori di "bisogni speciali" di tipo sanitario e psicologico. Il tutto in un contesto nel quale sta aumentando fortemente il numero delle coppie che, in presenza di problemi di infertilità, ricorre alla fecondazione assistita, ora anche eterologa: così il percorso adottivo, qualora anche questa strada si sia mostrata fallimentare, finisce per diventare, nella maggior parte dei casi, una scelta residuale. Da una ricerca ancora in corso, condotta presso il Centro di Ateneo Studi e Ricerche sulla Famiglia dell’Università Cattolica di Milano, risulta che il 60,9% delle coppie in attesa di adozione prima ha fatto ricorso, senza successo, alla fecondazione medicalmente assistita, con una media di 3,38 tentativi.
Le coppie, in sostanza, arrivano all’adozione attraverso itinerari davvero lunghi e dolorosi. È chiaro: nel nostro Paese l’adozione è in "crisi", ma nel senso etimologico del termine: cioè bivio tra due strade opposte. Ora, se è assolutamente vero che affinché l’adozione non finisca per diventare un’esclusiva delle coppie benestanti è necessario snellire gli aspetti burocratici, sostenere le coppie anche dal punto di vista economico, con incentivi e sgravi fiscali, tutto questo non può essere sufficiente. È necessario anche rilanciare le potenzialità insite in questo antichissimo istituto giuridico e riscoprirne la sua intrinseca natura: quella di essere un progetto generativo con una connaturata valenza sociale. L’adozione si fonda sulla profonda e reciproca connessione tra famiglia e sociale: essa nasce propriamente come risposta del sociale nei confronti dell’infanzia abbandonata. Potremmo dire che il sociale chiede alla famiglia di accogliere quei minori che ne sono privi, nella consapevolezza che solo la famiglia in quanto tale possa svolgere il compito di far crescere le future generazioni, perché è l’unico soggetto capace di rispondere al bisogno fondamentale di ogni essere umano di avere una relazione stabile e personalizzata con un padre e una madre.
Nell’adozione, dunque, i genitori svolgono un compito che ha una profonda e intrinseca valenza sociale. Tale dimensione comunitaria era ben evidente nel passato: nell’antichità, in special modo presso i Romani, ma anche nel Medioevo, l’adozione era accompagnata da un rito di passaggio cui partecipava tutta la comunità. L’adozione, in quanto azione propriamente sociale, non può essere ridotta a un affare privato: da qui scaturisce anche la responsabilità che il sociale è chiamato ad assumere nel sostenere le famiglie attraverso le diverse tappe del percorso adottivo. In altre parole, l’adozione è una sfida cui si può far fronte nella misura in cui la famiglia è capace di aprirsi all’esterno, di costruire legami e tessere una rete che possa sostenerla negli inevitabili momenti di difficoltà, e il sociale (enti autorizzati, associazioni familiari, scuola, servizi del pubblico e del privato sociale) è in grado di offrire quegli interventi che consentono di attingere pienamente e di mettere a frutto tutte le numerose e preziose risorse (individuali, relazionali e sociali) di cui le famiglie dispongono. Solo in questa luce l’adozione può riacquisire il suo pieno e profondo significato e può essere rilanciata come forma di accoglienza propriamente familiare.
 
*Professore Associato di Psicologia sociale, docente di Psicologia dell’adozione. Università Cattolica di Milano
 
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