sabato 13 giugno 2009
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Il viaggio del colonnello Gheddafi nel nostro Pae­se provoca commenti, reazioni e fa riflettere. Per il fatto in sé e per i 'casi' che sta suscitando a ripe­tizione, l’ultimo ieri a motivo dell’incredibile ritar­do (poi motivato diplomaticamente dai portavoce del leader libico) che ha portato all’annullamento del convegno che avrebbe dovuto tenersi alla Ca­mera dei deputati. Ed è bene che ci si ragioni su, per­ché l’Italia ospita uno scomodo personaggio di ri­lievo con cui ha stipulato un trattato che dovrebbe chiudere con il passato e proiettare nel futuro, sul­la base di impegni reciproci, i rapporti tra due Pae­si dirimpettai. È necessario, però, sfuggire a tenta­zioni sensazionalistiche di opposta sponda, e ra­gionare sui termini reali delle relazioni tra Italia e Libia. Certe proteste e manifestazioni anti-Gheddafi sot­tolineano l’assenza di democrazia in Libia, le re­sponsabilità di Tripoli in tanti fatti ed eventi delit­tuosi del passato, ma dimenticano l’altra faccia del­la medaglia. Cioè il cambiamento, intervenuto ne­gli ultimi anni, della politica libica verso l’Italia, il terrorismo, gli stessi Stati Uniti d’America. Ma anche le manifestazioni di segno opposto che esaltano acriticamente l’evento e la persona in vi­sita, negano le distanze tra democrazia e dittatura e magari subiscono il fascino indiscreto di chiun­que profumi di antiamericanismo, dimostrano leg­gerezza, scarsa capacità di analisi e insensibilità per la tutela dei diritti umani. La sostanza della questione che abbiamo di fronte è che il trattato dell’Italia con la Libia (con i limiti che ha ogni accordo del genere) testimonia un cam­biamento di questo Paese almeno su alcune que­stioni. Il rifiuto del terrorismo nello scacchiere in­ternazionale, che ha portato anche al riconosci­mento di responsabilità in vicende terribili come quella dell’attentato aereo di Lockerbie. Il rifiuto del sostegno a spericolate missioni militari, più o meno ufficiali, fuori e dentro l’Africa. L’impegno di Tripoli (da verificare nel tempo) di frenare i mercanti che utilizzano la spinta all’emigrazione per un com­mercio umano che sfocia nello sfruttamento, nel sangue, nella morte di chi spera in qualcosa che non verrà. La determinazione (altrettanto da veri­ficare) di concordare con Roma azioni comuni con­tro l’immigrazione irregolare, assicurando al con­tempo i diritti fondamentali a chi approdi sul suo­lo libico. A tutto ciò si deve aggiungere la fine delle rivendicazioni per il passato coloniale italiano, che si protraggono da un tempo così lungo da appari­re irreale e che comunque richiedono una valuta­zione intelligente. Sono questi i termini di un accordo che ha un va­lore di svolta, se si pensa che per decenni la Libia ha avuto un ruolo destabilizzatore, e che assume un significato notevole per tutta l’area mediterranea. Si tratta, dunque, di un evento a cui guardare non secondo una fredda 'ragion di Stato', ma come a un passaggio chiave al quale i governi italiani sta­vano aspirando da decenni seguiti dallo spesso ta­cito interesse di altri Paesi occidentali. Se questo è il significato di un Trattato che dovreb­be garantire stabilità politica, e inversione di mar­cia nel commercio degli schiavi, è evidente che si deve pagare un prezzo, si deve sacrificare qualco­sa. Questo prezzo non consiste certo nell’esercita­re la pazienza per intemerate verbali, reprimende storiche fantasiose, sfide al nostro orgoglio nazio­nale: questi sono eccessi in parte possibili nelle re­lazioni internazionali, non sempre intessute di cor­tesie in stile anglosassone. Se mai, si dovrà per il fu­turo dare a viaggi importanti come quello di que­sti giorni una dimensione proporzionata all’even­to, e ai sentimenti nazionali e ideali che hanno pu­re un loro significato. Il vero prezzo che dobbiamo pagare è l’impegno a vedere onorato un accordo che promette un cam­biamento, perché seguano i fatti, perché ci si con­vinca in Italia che ha contenuti buoni, crea stabi­lità, potrà essere di esempio nel Mediterraneo per le relazioni bilaterali, in Europa per una politica del­l’immigrazione che, insieme all’accoglienza, stron­chi una buona volta le indegne tratte di esseri u­mani. Se così non fosse, l’intero giudizio andrebbe rivisto e registreremmo un fallimento non indiffe­rente. Ma se il Trattato darà buoni frutti, coronan­do gli sforzi fatti dai governi italiani per decenni, anche qualche smagliatura, o sproporzione nel si­nallagma tra le parti, potranno farsi rientrare nella logica di quegli accordi stipulati da soggetti molto diversi, e distanti. Una considerazione finale, invece, riguarda la tu­tela dei diritti umani, che l’Italia è chiamata a tute­lare sempre e dovunque con gli strumenti propri del diritto internazionale, e con una incessante opera promozionale che non ha confini. Deve essere chia­ro che l’Italia è chiamata a proseguire nel suo im­pegno internazionale, senza remore o vincoli che le derivino da specifiche relazioni bilaterali.
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