venerdì 2 dicembre 2011
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Caro direttore,
quando il presidente della Repubblica ha definito 'follia' non dare la cittadinanza a tutti i bambini nati in Italia, anche se da figli di stranieri, non mi aspettavo come risposta un consenso universale. Mi aspettavo almeno l’apprezzamento unanime per un parere privato, ma espresso da un uomo pubblico di cui tutti conoscono la saggezza lungimirante. Ho visto invece un incredibile fuoco di sbarramento (non si può, è complicato, è troppo presto, ci sono cose più urgenti, ecc.) oppure un nicchiare imbarazzato. Ho giudicato improprio, ad esempio, l’accostamento della cittadinanza all’aborto. L’aborto è una piaga, un abominio, una ferita indelebile inferta alle donne, ma non si può cancellare con la firma di Napolitano su una decisione del Parlamento. Il rifiuto della cittadinanza ai bambini nati in Italia invece sì. Se proprio vogliamo tirare in ballo l’aborto, diciamo che, siccome oggi le donne che vi ricorrono maggiormente sono straniere, il rifiuto della cittadinanza ai loro figli (cioè il rifiuto di una tutela e di diritti che faciliterebbero il loro ingresso nella vita) è oggettivamente una spinta in più per la loro decisione di morte. Ma al di là di questo argomento, c’è un obbligo giuridico internazionale che dobbiamo onorare. Nella Convenzione sui diritti all’infanzia del 1989, ratificata dall’Italia il 22 maggio 1991, all’articolo 7 si legge tra l’altro che «il fanciullo è registrato immediatamente al momento della nascita» e da allora «ha diritto a un nome» e «ad acquisire la cittadinanza». La cittadinanza, è vero, potrebbe essere quella del Paese di origine dei genitori, ma – sempre secondo lo stesso articolo 7 – l’Italia dovrebbe 'vigilare' perché ciò avvenga; in caso contrario, dice la Convenzione con tono sanzionatorio, «il fanciullo verrebbe a trovarsi apolide». Visto e considerato, quella della cittadinanza alla nascita è ancora la strada più semplice, la più umana, la più cristiana, la più vantaggiosa sia per il bambino nostro prossimo che per un’Italia in crisi demografica. Mali come pregiudizi, grettezze, miopie etnico-politiche? Solo con prese di posizione limpide e coraggiose possiamo pensare di sconfiggerli.
don Sandro Lagomarsini
 
Caro direttore,
seguo con interesse la discussione sulla concessione della cittadinanza italiana. Posso raccontare una esperienza mia e di mia moglie. Nel 1991 aiutammo (come Centro di aiuto alla vita) una coppia di immigrati dall’Asia che attendeva il primo figlio, nato poco dopo nella nostra città. I genitori, cristiani, ci proposero di esserne i padrini di battesimo. Nell’anno 2009 il figlioccio compì il 18° anno ed esercitò il diritto di diventare cittadino italiano. Ora, dopo la maturità classica, studia alla Alma Mater di Bologna, con profitto e una borsa di studio. Nel 1996 la coppia ebbe una figlia e nel 2002 un secondo maschio. Il padre, dopo più di dieci anni di regolare residenza in Italia, ha chiesto e ottenuto la cittadinanza italiana.
Ora anche i due figli minori sono cittadini italiani. Ergo: non comprendo cosa si debba cambiare nella nostra legge, visto che funziona bene (a parte la lentezza burocratica, che non dipende dalla legge di cittadinanza, ma da altre cause ben note). Semmai, potrebbe esserci il problema degli irregolari e dei clandestini o di immigrati regolari che, anche dopo dieci anni di residenza, non riescono a ottenere la cittadinanza perché non possono dimostrare di essere nelle condizioni stabilite dalla legge. Si potrebbe, perciò, intervenire per modificare alcune di queste condizioni, senza però indulgere su problemi di sicurezza e di regolarità fiscale e previdenziale. Infine non ci pare che sia opportuno incidere così radicalmente sulla legge, introducendo il jus soli (come negli Usa, che hanno un passato ben diverso dal nostro) senza un preventivo concerto europeo, dal momento che, assieme alla cittadinanza di uno Stato membro della Ue, si acquista automaticamente anche la cittadinanza europea (a 27 Stati).
 
Attilio Sangiani
 
 
Ancora saggi e civilissimi "diversi pareri" su una questione seria come quella della via migliore per integrare, anche con la piena cittadinanza, coloro che erano stranieri e sono venuti a lavorare e vivere con noi italiani. L’esperienza di un sacerdote come don Lagomarsini e di un giurista come il dottor Sangiani dimostrano, a mio parere, che leggi e regole servono, ma più di tutto serve una grande umanità in chi le applica e in chi vigila sul rispetto dei princìpi che le ispirano. Per quanto mi riguarda, continuo a pensare che la cultura dell’accoglienza e del rispetto per ogni vita o sono veri e, dunque, tutti interi o non sono. Quando dico questo, ovviamente, so bene che nella realtà si può essere giusti e amorevoli con i propri figli e, purtroppo, profondamente ingiusti e ostili con lo straniero o, viceversa, essere capaci di slanci verso chi viene da lontano e incapaci di riconoscere l’intangibilità della vita che viene da noi stessi. Voglio solo dire che dobbiamo imparare a non sminuzzare i grandi valori che danno senso – cioè profondità e direzione – al nostro cammino, alle nostre relazioni e alle nostre scelte. Constato, insomma, che solo una società che sa considerare intangibili il valore e la dignità della vita umana – dal suo primo inizio alla fine naturale e per tutto il suo corso – riesce ad accogliere e non fa 'selezioni' casuali e burocratiche o tristemente (e persino cinicamente) mirate a un qualche interesse.
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