Abito di preti e consacrati: la dignità e l'efficacia
sabato 8 agosto 2020

Gentile direttore,

in merito alla lettera pubblicata sabato 1 agosto 2020 sull’abbigliamento clericale, sono rimasto male della risposta che lei ha dato al lettore Salerno sull’abito che deve identificare il sacerdote. È come quelli che dicono che non è necessario venire in chiesa perché chi non ci viene potrebbe comportarsi nella vita in modo migliore! È vero che «l’abito non fa il monaco », ma rimane pur sempre vero che un buon monaco porta l’abito dignitoso per il suo stato. Se poi i laici chiedono ai sacerdoti di farsi riconoscere, vogliamo ancora dire che va bene tutto? Grazie.

don Stefano D’Atri, Duomo di Pietrasanta (Lu)

Gentile e molto reverendo don Stefano, mi spiace che la mia risposta l’abbia turbata, soprattutto perché sono ovviamente d’accordo con lei sulla dignità necessaria dell’abito sacerdotale. Anche per questo non penso e non ho scritto «che va bene tutto»... Ho scritto che conosco preti buoni e santi in talare (o in clergyman) e preti buoni e santi con la croce sulla giacca o un crocifisso al collo e perciò sono stato abituato a considerare prima di tutto i frutti della semina. Certo non ho scritto che mi piacciono i sacerdoti e i religiosi e le religiose indistinguibili per come vivono e agiscono, e per come vestono. Anzi no, mi correggo. Ne ho conosciuti, e ne sono rimasto conquistato, anche di non distinguibili a prima vista per il loro abito e però assolutamente straordinari. Sono preti e consacrati e consacrate che lavorano la vigna che è loro affidata in aree del mondo dove la Chiesa non è libera ed è anche perseguitata o rischia di essere fraintesa. Anche a loro penso, in positivo, quando rispolvero il vecchio detto «l’abito non fa il monaco».

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