Caso Siri: regole e sostanza politica
sabato 4 maggio 2019

La questione delle dimissioni o della revoca del sottosegretario Armando Siri può essere analizzata da due punti di vista diversi, ma intrecciati fra loro: quello del diritto scritto e quello della logica di un Governo parlamentare di coalizione.

Già dal punto di vista del diritto scritto, che pur offre importanti indicazioni, alcuni elementi restano incerti. La legge n. 400 del 1988 ha infatti disciplinato il procedimento per la nomina dei sottosegretari di Stato, ma tace sulla loro revoca. La nomina avviene su proposta del presidente del Consiglio, «di concerto» con il ministro competente e sentito il Consiglio dei ministri ed è disposta con decreto del presidente della Repubblica.

Un procedimento articolato, dunque, nel quale il cuore della decisione politica si è tradizionalmente situato nella sede collegiale, la migliore a recepire l’esigenza di equilibrio complessivo della compagine governativa. I sottosegretari, infatti, furono istituiti nel lontano 1888 per supportare i ministri nel rapporto con il Parlamento e progressivamente sono diventati titolari di deleghe loro affidate dal ministro cui afferiscono per la gestione di settori delle attività governative. Ma nella pratica del regime parlamentare di partito, instaurato in Italia nel secondo dopoguerra, i sottosegretari sono diventati un modo per riflettere nei governi di coalizione la dimensione multipartitica, sicché non è raro, in tali governi – che sono stati la regola nell’esperienza italiana – che in un ministero retto da un ministro di un colore politico, il sottosegretario rappresenti un partito diverso. È un modo per realizzare equilibrio fra le componenti politiche dell’esecutivo.

Detto ciò, l’art. 10 della legge 400 tace sull’aspetto che oggi più interessa: la revoca del sottosegretario. Il che non deve stupire, dato che anche l’art. 92 della Costituzione, che disciplina la nomina dei ministri (da parte del presidente della Repubblica, su proposta del presidente del Consiglio), non ne prevede la revoca, a differenza dell’art. 5 dello Statuto albertino («il Re nomina e revoca i suoi ministri»).

Tuttavia, mentre riguardo ai ministri è prevalsa la tesi secondo cui la mancata menzione della revoca la esclude implicitamente (con la bizzarra conseguenza che in passato, nell’impossibilità di rimuovere uno e più ministri, la soluzione è stata trovata nelle dimissioni dell’intero esecutivo – secondo governo Spadolini, novembre 1982 – o nella sfiducia individuale approvata dalla maggioranza contro il ministro dissenziente – caso Mancuso, nel governo Dini, 1995), le cose sono andate diversamente per i sottosegretari, per i quali si registrano almeno tre casi di vera e propria revoca: nel 1993 per Antonio Pappalardo sotto il governo Ciampi (condanna in I grado per diffamazione, che alla fine fu cancellata dalla Cassazione), nel 1998 per Angelo Giorgianni sotto il I governo Prodi (accuse di contatti con la mafia da cui poi venne assolto) e nel 2002 per Vittorio Sgarbi sotto il secondo governo Berlusconi (contrasto con il ministro di settore, Giuliano Urbani). In tutti questi casi si seguì una procedura speculare a quella dell’art. 10 della legge n. 400: il presidente del Consiglio propose al Consiglio dei ministri la revoca del sottosegretario, che fu disposta con decreto del presidente della Repubblica. E questa è in effetti la via che il premier Conte si appresta a seguire oggi.

Ma qui emerge l’anomalia del caso attuale. In un Governo di coalizione la revoca richiede l’accordo politico dei partiti della maggioranza, se non vuole mettere a rischio la coalizione stessa.

Mentre in un governo monopartitico, o con un leader riconosciuto da tutta la coalizione, la revoca non è necessaria perché una richiesta di dimissioni da parte del premier è normalmente accolta dal ministro o dal sottosegretario dissenziente (si pensi alle dimissioni di Ruggiero, Scajola, Tremonti, Mazzella e Calderoli su richiesta del premier durante il II e il III governo Berlusconi), la revoca di un ministro di un partito diverso da quello del premier rischia sempre, se non è concordata, di far saltare l’intero Governo. Ecco perché le revoche di ministri e sottosegretari sono casi rari nei governi di coalizione.

Ed ecco cosa manca nel caso Siri: non vi è accordo fra gli azionisti del governo Conte sul “licenziamento” del sottosegretario. E l’ipotesi ventilata da parte pentastellata, di un voto a maggioranza del Consiglio dei mini-stri, con cui un partito forzi la mano all’altro, confonde la logica parlamentare con quella governativa, ove l’omogeneità e non la maggioranza è la regola. Del resto, anche il contratto di coalizione fra Lega e Cinquestelle si muove in una prospettiva simile per la soluzione dei conflitti fra i due partiti di governo. Al punto che si può ipotizzare che il presidente della Repubblica, in sede di adozione del decreto di revoca, potrebbe eccepire la mancanza di accordo all’interno del Governo.

Conclusione: casi simili sono sempre spinosi (persino a prescindere dalla vicenda sottostante al caso Siri). Ma l’ambiguità con cui è nato il sedicente “governo del cambiamento”, con un premier esecutore del programma e due vice-premier in competizione costante per la determinazione della politica generale dell’esecutivo, si vede bene anche qui. O vi sarà un agree to differ (la reciproca rinuncia allo scontro, pur nella diversità di posizioni) su questa specifica vicenda, o è fisiologico che la forzatura imposta dai 5stelle a Conte sia l’anticamera della caduta del Governo.

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