mercoledì 29 aprile 2020
I decessi ufficiali sono più di 21mila, ma secondo le stime sarebbero circa il doppio. Il dietrofront del premier Johnson dopo la malattia
Boris Johnson

Boris Johnson - Ansa

COMMENTA E CONDIVIDI

Detta da Richard Horton, direttore di “The Lancet”, rivista scientifica britannica tra le più prestigiose al mondo, la risposta del governo Johnson al coronavirus è stata “uno scandalo nazionale” che si poteva evitare. In un editoriale del 28 marzo, cinque giorni dopo il lockdown disposto per il contenimento dell’epidemia, quando i morti erano “appena” 1.019, Horton scriveva: «Sapevamo dall’ultima settimana di gennaio quello che sarebbe successo, ma per oscuri motivi non è stato fatto nulla». «Il governo ha adesso un piano per la soppressione del Covid–19, ma – sferza – è troppo tardi». Un mese dopo quel pubblico J’accuse, il Regno Unito conta 21.678 vittime da coronavirus in ospedale e, secondo il Financial Times, altrettante fuori, in residenze per gli anziani e abitazioni private. Stima confermata anche dall’Ufficio nazionale di Statistica secondo cui, al momento, la conta complessiva dei decessi potrebbe in realtà essere almeno il 35% più alta rispetto sinora comunicata. Perché, ci si chiede? Quali sono le motivazioni “oscure” che hanno rallentato la decisione dell’esecutivo di mettere al sicuro il Paese dallo tsunami di morti in arrivo dal continente?

La cronaca della débâcle causata dal coronavirus a Londra racconta ogni giorno di infermieri morti in corsia senza adeguata protezione di guanti e mascherine, di allestimenti lampo di ospedali e camere mortuarie, degli applausi ai balconi in onore dei medici dell’Nhs, dell’anomalo 94esimo compleanno della regina Elisabetta festeggiato, quest’anno, senza i consueti spari a salve dei cannoni a Hyde Park. Narrativa tristemente simile a quella di tanti altri Paesi del mondo, forse più vicina a Pechino, piuttosto che a Roma, Madrid o Parigi, quando spingendosi a descrivere il ruolo dell’esecutivo nella gestione dell’emergenza si tinge di mistero. Persino le reali condizioni del premier Boris Johnson, ricoverato per tre giorni nella terapia intensiva dell’ospedale St. Thomas dopo aver contratto il virus, sono state, per lo meno all’inizio, tenute sotto stretto riserbo. Ancora una volta: perché?

Sarà il Parlamento, nei mesi a venire, a fornire una risposta a questi interrogativi, ammesso che la Camera dei Comuni, dove “re Boris” detiene una maggioranza ultra–consolidata, riuscirà ad avviare una commissione d’inchiesta. Intanto, a fornire un’idea di come le cose possano essere andate è l’indagine, lenta e minuziosa come l’assembramento di un puzzle, tentata dalla stampa locale, di destra e di sinistra, colta e popolare, ostinata negli ultimi giorni a rivendicare trasparenza. Gli stessi organi di informazione, va sottolineato, che il 9 marzo, quando l’Italia annunciava la drastica chiusura dei battenti per contenere l’estensione del virus, sembrava presa più dall’ultima comparsa pubblica da reali di Harry e Megan, all’abbazia di Westminster, che dell’inarrestabile emorragia di vittime in corso nel continente.

Una recente inchiesta del Guardian ha portato alla luce un dettaglio di non poco conto: alle riunioni di gennaio tra governo e Sage, il gruppo di scienziati a cui è affidata la gestione delle emergenze, e la cui esatta composizione è rigorosamente segreta, avrebbe partecipato anche Dominic Cummings, braccio destro di BoJo a Downing Street, eminenza grigia della campagna che ha portato la Gran Bretagna fuori dall’Ue. Insieme a lui, anche il suo storico collaboratore Ben Warner, data scientist, fratello di Mark, titolare di una società di intelligenza artificiale, Faculty, affiliata ai colossi statunitensi del data–mining legati agli ambienti repubblicani, incaricata di elaborare una proiezione dello scenario che si sarebbe creato nell’eventuale adozione della controversa policy dell’”immunità di gregge”. Downing Street ha rivendicato la legittima partecipazione dei due uditori, occasionalmente intervenuti a porre domande, ma, ci si chiede, che ne è dell’autonomia dei saggi che Johnson aveva indicato come faro della sua strategia contro il coronavirus? Quanto, nei fatti, Cummings, noto per il suo estremismo di destra, ha influenzato le scelte del governo sulla gestione dell’epidemia?

Il pragmatismo inglese è rigoroso ma non naïf: se BoJo fosse stato pienamente consapevole dei rischio coronavirus – è il ragionamento – non avrebbe partecipato insieme alla compagna incinta, Carrie Symond, all’incontro di rugby Inghilterra– Galles del 7 marzo a Twickenham; probabilmente non sarebbe stato autorizzato neppure il festival di Cheltenham, la corsa di cavalli che per tre giorni, dall’11 marzo, ha raccolto nel Gloucestershire 250mila persone. L’ipotesi, piuttosto, è che il governo conservatore, ubriaco dello stra–potere conquistato alle elezioni dello scorso dicembre, ancora stordito dall’onnipotenza conquistata con la realizzazione della Brexit, semplicemente, non abbia fatto bene i conti con la realtà. Nel discorso a Greenwich del 3 febbraio, annunciando l’apertura dei negoziati commerciali con l’Ue, il premier bollava il lockdown alla “Wuhan–style” come una «bizzarra retorica autarchica» che va oltre la «razionalità medica» creando «un danno economico non necessario».

Tanti nel dibattito sono quelli che puntano il dito contro gli scienziati consulenti di Downing Street, come Chris Witty e Patrick Vallance, rispettivamente, consigliere medico e scientifico, accusandoli di non aver gridato abbastanza forte al pericolo, di non aver preteso l’applicazione immediata delle direttive dell’Oms sui tamponi a tappeto. E se, invece, fosse stato il governo a fare orecchie da mercante? È per “ragioni politiche”, come l’esecutivo ha prima dichiarato in Parlamento e poi ritrattato, che il Regno Unito ha del resto snobbato il programma europeo da 1,5 miliardi di euro per l’acquisto di guanti, occhiali e mascherine di protezione per il personale medico. Strumenti di cui aveva disperato bisogno.

Lunedì, dopo una convalescenza di due settimane, Johnson, che appena uscito dall’ospedale ha telefonato al suo mentore Donald Trump, è tornato al lavoro a Downing Street. Nei prossimi giorni dovrà decidere se e come allentare il lockdown e trovare il modo di rimette in sesto un Paese ferito oltre che economicamente dissanguato. Secondo il Centro per la ricerca economica e finanziaria il blocco totale delle attività costa 2,4 miliardi di sterline al giorno (2,7 miliardi di euro). Il premier “pavone”, che per settimane ha creduto di poter sconfiggere il Covid–19 incoraggiando i cittadini a lavarsi spesso le mani e a isolarsi in caso di tosse e febbre, l’uomo passato tardivamente al “whatever it takes”, sembra aver ceduto il passo allo stoicismo ciceroniano: «La salute del popolo è la legge suprema», va ricordando ai suoi.

Altissima è tuttavia la pressione che riceve per mitigare al più presto le misure restrittive. Scalpitano gli imprenditori e i dirigenti del partito conservatore che aspettano di veder tornare le aziende a macinare affari perché c’è altro, oltre al coronavirus, a cui pensare: la Brexit nuda e pura attesa entro la fine dell’anno. «Dobbiamo riaprire ad ogni costo – è il senso di una conversazione tra deputati Tory citata dalla Bbc – perché in fondo l’obiettivo del governo è stato raggiunto: l’Nhs, il servizio sanitario nazionale, è ancora in piedi».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI