domenica 15 novembre 2015
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​I nuovi e spietati atti di violenza jihadista nel cuore della Francia hanno reso acuta e forse finalmente definitiva la consapevolezza della «guerra che si combatte a pezzi» e che ha uno dei suoi fronti più drammatici nell’area euromediterranea. È una guerra che noi stessi – occidentali ed europei – combattiamo da anni e in diversi modi, anche se fingiamo di non saperlo e a volte non vogliamo proprio vederlo, anche quando ne siamo tenuti all’oscuro e ne subiamo le conseguenze. I morti e i feriti provocati dai terroristi islamici nella terribile notte parigina del 13 novembre rappresentano il duro prezzo di questa definitiva chiarezza. Anzi, sono la pesantissima metà del prezzo, perché l’altra metà (e più) sono i morti nelle continue "stragi extracomunitarie" d’Asia e d’Africa e le migrazioni forzate delle vittime degli assassini che ora colpiscono anche noi.Ma Parigi val bene questo corale dolore e questa chiarezza. Stavolta non ci sono, come nei già sconvolgenti giorni di sangue di gennaio, inaccettabili razzismi antiebraici o pretesti anti-satirici a "spiegare" almeno un po’ l’accaduto. Stavolta c’è la vita quotidiana di una libera e multietnica metropoli occidentale e la morte portata con metodica determinazione da un manipolo di fanatici politico-religiosi. E c’è la lancinante catena di efferatezze su cui abbiamo ragionato ieri notte, leggendo, brevemente e a caldo, su questa stessa prima pagina, la concatenazione di fatti che in un sol giorno ci ha messo sotto gli occhi l’uccisione in Siria di John il tagliagole, lo sgozzamento di un ragazzo tunisino accusato di rispettare più il suo governo del jihad (la "guerra santa" fondamentalista) e infine la terrificante sequenza di attacchi parigini. Siamo più che mai convinti che il prezzo pagato per poter "vedere" compiutamente questa cruda realtà è troppo alto per venire sprecato oppure malamente riciclato come "moneta della paura e della vendetta". La stessa moneta spacciata dai jihadisti oggi pronti a uccidere uccidendosi nel nome del califfo dello "Stato islamico".Eppure, in Europa e in Italia, c’è qualcuno – populisti all’opposizione permanente, ma anche capi di governo – che continua a illudersi che l’odio e il pericolo si possano fermare vivendoli a nostra volta, cioè aderendo di fatto al progetto jihadista e alla logica della "guerra dei mondi". Che è l’esatto contrario di una realistica ed efficace unione delle forze – in specie, torniamo a sottolinearlo, euromediterranee – per vincere ora le battaglie che non ci possiamo più permettere di perdere contro l’Is e per costruire una strategia di pace e di stabilità in un’area cruciale, dove sono tornati a muoversi da protagonisti (come sempre, con più interessi che idee) Stati Uniti e Russia, nella quale sono vittime tutte le minoranze etnico-religiose e l’islam stesso è divenuto ostaggio di radicalismi distruttivi. L’interesse dei Paesi Ue e delle altre nazioni rivierasche – dalla Turchia alla Tunisia – è, invece, di fare del Mediterraneo un «lago di pace» e di sviluppo umano, non un muro d’acqua ed, esso stesso, un ribollente campo di battaglia.La precondizione perché questa alleanza si realizzi e l’Europa affronti la prova con la determinazione necessaria a vincerla è, dunque, rifiutare la cattiva moneta della paura. Mai facile a dirsi e a farsi, e tanto più in giorni come questi, ma bisogna. Cedere alla paura e consegnarsi al sospetto sistematico, esclusivo e paralizzante, sarebbe un suicidio e segnerebbe il fallimento del lento e incessante lavoro per costruire una comune cultura della convivenza, delle libertà fondamentali e dei diritti e doveri umani in un mondo che sopporta sempre meno recinti e frontiere. Per questo nessuno può pensare di riuscire a "stare tranquillo" alzando muri, ritirandosi e barricandosi dietro di essi (e questo riguarda Stati e partiti politici tanto quanto comunità, famiglie e singole persone...).L’Italia in questo senso ha un compito speciale da svolgere al fianco degli altri Paesi euromediterranei e soprattutto della Francia, così duramente colpita. Nella nostra storia e nel nostro Dna c’è, infatti, una capacità di lotta popolare e vincente contro il terrorismo ideologico. Una lotta che va condotta sul piano politico e culturale oltre che con la necessaria repressione. Dobbiamo esserne consapevoli e saperne essere degni. Così come dobbiamo avere chiaro – la preghiera a cui i vescovi italiani chiamano oggi le comunità cristiane aiuta a capirlo – che una risposta decisiva alla degenerazione assassina di una religione viene innanzi tutto da una fede in Dio vissuta con aperta e disarmante generosità. Siamo in un tempo aspro e duro, ed è davvero provvidenziale che papa Francesco gli abbia impresso anche il segno del Giubileo della Misericordia. Non ci possiamo rassegnare al dominio del terrore e al trionfo della paura. E non lo faremo.
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