mercoledì 28 novembre 2018
I dubbi di un lettore sui pericoli eccessivi cui si sarebbe esposta la cooperante rapita in Kenya. Ma non esiste, obiettiamo, una via unica alla precauzione
La prudenza dei volontari e quel «buon senso» ...
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Gentile direttore,
ho letto l’editoriale di Andrea Lavazza su Silvia Romano – «Almeno tacete» (“Avvenire”, venerdì 23 novembre 2018) – e lo condivido in gran parte. A me è anche capitato di leggere “auguri” di fare «la stessa fine di Regeni»... Tutte le persone per bene auspicano la sua liberazione, anche se pagando un riscatto si alimenta il terrorismo e si incentivano altri sequestri (non dimentichiamoci come abbiamo debellato in Italia il business dei sequestri di persona...). Non condivido però la sua affermazione secondo la quale non ci sarebbe stata imprudenza da parte della ragazza: basta leggere l’intervista sul “Corriere” al cooperante che lavora da anni in Africa e che ha trascorso un certo periodo con Silvia, descritta come insofferente alle regole (“voleva uscire alla sera nonostante fosse fortemente sconsigliato”). Lo stesso cooperante aveva cercato di dissuaderla dall’andare dove poi è avvenuto il sequestro dicendole che era in mezzo alla foresta, non vi erano altri occidentali, non c’era corrente e lei rispose “bello, bello!”... Il volontariato va fatto con buonsenso e prudenza, avendo anche riguardo della propria vita ed incolumità, e dei sentimenti dei propri famigliari...

Alessandro Martinez Torino

Gentile signor Martinez,
la ringrazio dell’apprezzamento al mio articolo e volentieri, su invito del direttore, discuto con lei dei punti in cui c’è disaccordo. Che il volontariato vada fatto con buonsenso e prudenza, salvaguardando la propria incolumità e la propria vita, tenendo conto dei sentimenti dei propri familiari e dei costi che potrebbero eventualmente ricadere sulla collettività, è una delle idee più condivise in questi giorni dai critici, diciamo così, simpatizzanti e ragionevoli di Silvia Romano. Non parlerò qui di coloro che hanno dato fondo al più becero repertorio anti-buonista. Stiamo ai fatti e agli argomenti degni di tale nome. Che cosa significa essere imprudenti? La prudenza è una virtù laica e cristiana, la capacità di retto discernimento delle azioni umane, una saggezza pratica che può essere il “non correre” quando ci si mette in auto, ma anche non scegliere la facoltà di Medicina se si sa che il mercato sanitario è saturo per gli anni a venire. Ma già qui sorgono i problemi. Se ho un certo talento e una vocazione a prendermi cura del prossimo, devo rinunciarvi per fare l’avvocato o il commercialista? Non apprezziamo chi testardamente insegue sogni di questo tipo?
C’è poi Davide che affronta Golia. Qualcuno potrebbe dire che sia stato davvero poco prudente, vista la disparità di forze in campo; forse il futuro re avrebbe fatto meglio a ritirarsi lasciando la vittoria al gigante filisteo. Non c’è una via univoca della prudenza, anche se in molti casi vi è certamente un maggiore consenso su ciò che sarebbe buon senso fare. E veniamo a un’obiezione più forte: è giusto mettere a repentaglio la sicurezza altrui nel pur lodevole tentativo di fare del bene? Non parliamo, si badi, dei sentimenti dei propri familiari, considerazione che sarebbe riduttiva. Prendiamo il caso specifico della volontaria italiana in Kenya. Se qualcuno, per difenderla o per cercare di liberarla, venisse ferito o ucciso, in qualche misura ne porterebbe anche lei la responsabilità? Se fosse un evento certo o previsto con un alto margine di confidenza, probabilmente sì. Tutte le ragazze che sono andate a Chakama prima di Silvia sono state rapite? Allora, sarebbe prudente – e doveroso – non andarci senza precauzioni. E le conseguenze, anche se non ipotizzabili in anticipo, potrebbero essere imputate a chi si è dimostrato temerario. Tuttavia, i volontari delle Ong si recano proprio dove ci sono fame, malattie e guerre, le tre grandi piaghe dell’umanità, che rendono i luoghi in cui si diffondono altamente insicuri. Inoltre, il solo fatto di rinunciare a portare aiuti in zone genericamente “pericolose” darebbe campo libero a tutti i facinorosi e i malintenzionati, pronti a rendere rischiose le aree che vogliono controllare, e lascerebbe senza assistenza le vere vittime. E il riscatto? Se i sequestratori chiederanno una somma di denaro per liberare la volontaria, sopporteremo una perdita economica e, in più, finiremmo con il finanziare terroristi o banditi, che con quei soldi compreranno armi. Ciò è vero, ma non riguarda i cooperanti non chiaramente imprudenti. Infatti, alcuni Paesi hanno deciso in passato di non trattare sugli ostaggi, indipendentemente dalla modalità della loro cattura, proprio per non alimentare un’economia dei sequestri. Si può pensare che si ottenga un bene maggiore sacrificando una incolpevole giovane di 23 anni rispetto a pagare un riscatto. Questo è però un altro tema, ammesso che qualcuno voglia sostenere tale posizione. Alla luce dei fatti, forse l’associazione Africa Miele poteva essere più accorta e mettere Silvia Romano in migliori condizioni di sicurezza. In definitiva, tuttavia, caro signor Martinez, temo che tanti dei ragionevoli appelli al buon senso – e voglio escludere esplicitamente il suo – diventino la meschina copertura di un egoismo che rischia di spegnere non solo la concreta solidarietà con Paesi meno sviluppati, ma anche i sogni e i progetti di tanti nostri giovani ancora animati da generosità e altruismo.

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