Discriminazione dei disabili, saper vedere dove comincia
giovedì 8 luglio 2021

Stupisce, e un po’ addolora, che il mondo della disabilità abbia deciso di ribadire il suo sostegno al cosiddetto ddl Zan così com’è. Da oltre trent’anni mi occupo di questioni sanitarie e bioetiche, e per motivi familiari sono attento alle attività di CoorDown e di Associazione italiana persone Down (Aipd), due grandi realtà impegnate nella difesa dei diritti e nella promozione dello sviluppo delle persone con sindrome di Down. Ho appreso dai social che la Federazione italiana per il superamento dell’handicap (Fish) – di cui Aipd fa parte, ma anche CoorDown ha preso posizione – ha firmato un appello congiunto con Asgi e con Avvocatura per i diritti Lgbti- Rete Lenford per una rapida approvazione nell’attuale formulazione della proposta di legge contro 'omotransfobia, misoginia e abilismo' «perché l’uguaglianza o è di tutti e tutte o non è». Tuttavia il principio – vero in astratto – in questo caso diventa solo uno slogan per diversi motivi. Innanzi tutto, è evidente che si parla di questioni piuttosto diverse: non è sempre lo stesso 'tipo' di valutazione o (cattivo) ragionamento a ispirare comportamenti discriminatori nei confronti di una persona omosessuale o di una persona disabile.

In secondo luogo, il richiamo alla disabilità è stato inserita nel ddl Zan piuttosto tardi, quando l’articolato di legge era già stato impostato: lo conferma il fatto che nulla che riguardi la disabilità è presente nel testo, che vuole introdurre nuovi reati e si preoccupa di istituire una Giornata per 'sensibilizzare' gli studenti sull’omofobia (eccetera). E non a caso la disabilità non è presente nemmeno nelle definizioni dell’articolo 1. Non paia una pretesa superflua: la definizione di disabilità è tutt’altro che pacifica, e la classificazione internazionale del funzionamento (Icf, nella sigla inglese) adottata vent’anni fa dalla Organizzazione mondiale della sanità non è condivisa da tutti gli Stati perché – nel chiedere che si tolgano le barriere e si favoriscano i facilitatori per le persone colpite da qualche problema di salute – chiama in causa la responsabilità politica di intervenire attivamente per rimediare a situazioni che trasformano una persona con un bisogno di assistenza in un disabile.

In terzo luogo, la disabilità ha già una sua legge contro le discriminazioni: la legge 67 del 2006, che permette anche alle associazioni di agire in giudizio contro i comportamenti discriminatori. Come è accaduto nel 2010 quando CoorDown intervenne contro un grande parco di divertimenti italiani che non permetteva l’accesso ad alcune attrazioni alle persone con sindrome di Down.

Infine – in cauda venenum – una legge che volesse combattere le discriminazioni subite dalle persone disabili avvierebbe almeno una riflessione e affermerebbe come principio che il primo diritto che hanno le persone disabili è quello di vivere. Quindi si batterebbe non perché possano accedere al suicidio con l’aiuto di un medico, ma perché abbiano accesso a tutti gli ausili e le terapie che servono loro. E 'contesterebbe' la possibilità di abortire un feto perché la sua disabilità provoca pericoli per la salute psichica della donna (come prevede la legge 194). L’aborto è un tema che le associazioni di solito affrontano malvolentieri, preferiscono concentrarsi sulle attività di sostegno e assistenza alle persone con disabilità e alle loro famiglie. È evidente però che se non viene difeso il diritto alla vita di una persona con sindrome di Down, il messaggio che si lancia è che 'vale meno' degli altri. Ed è inutile, poi, lamentarsi dell’utilizzo di un linguaggio spregiativo o discriminatorio, quando viene considerato del tutto legittimo non far venire al mondo una persona disabile.

È bene dirlo chiaro: il sostegno al ddl Zan così com’è finisce per essere un puro adeguarsi al 'politicamente corretto', ma non giova alle persone con disabilità.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI